lunedì 9 ottobre 2017

Conosci te stesso



Cosa significa conoscere se stessi? Sapete che questa frase era scritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi? “Gnothi seauton” per i greci antichi era una massima di importanza fondamentale. Ma perché dovremmo conoscerci? E chi è questo se stessi che dovremmo conoscere? Intanto possiamo chiederci: è uno o sono molti? Se fosse uno sarebbe relativamente facile.
Invece quando vogliamo fare una dieta, andare a correre, meditare ogni giorno, cambiare lavoro, mangiare più sano, a volte non ci riusciamo, perché? Perché siamo molti, e non tutti al nostro interno vogliono le stesse cose: una parte di me vuole andare a correre, un'altra parte è pigra e vuole riposare. Al livello della personalità non c'è un me stesso, ma ce ne sono tanti, e spesso non sono d'accordo.

Questo è il motivo per cui ogni nostra decisione, ogni nostro “si”, ogni nostro impegno è una percentuale. Immaginate che quando siamo di fronte a una scelta qualsiasi, ci sia al nostro interno una votazione. Mia moglie mi chiede: “Ivan, mi aiuti a montare questo armadio?”. C'è una parte di me che vuole, una che non vuole, una che è stanca una che è pigra, una che vuole compiacere, una che si sente sfruttata, una parte accomodante che cerca di far andare bene le cose. Tutte queste parti votano. Mettiamo che vinca il si con il 60% dei voti. A quel punto io dirò di “si”, ma la minoranza, quel 40% che ha votato no, non è che si arrende: si farà sentire in altri modi, cercherà di boicottare, di fare ostruzionismo. Allora potrei iniziare ad esempio a montare l'armadio con il muso lungo, oppure dire di si ma subito iniziare a procrastinare “aspetta solo un attimo che faccio un'ultima cosa, che controllo le mail, che metto a posto la scrivania,...” tutte espressioni delle parti di me che hanno votato no. Mia moglie a questo punto inizierà a scocciarsi e finiremo per litigare.

Molto spesso, visto che non siamo uno, rispondiamo, decidiamo, prendiamo impegni mentre siamo identificati con la parte di noi che in quel momento per vari motivi è sul proscenio della nostra vita psichica. Poi quella parte che si è presa l'impegno va dietro le quinte e al suo posto ne arriva un'altra che non ha nessuna intenzione di rispettare un impegno che a tutti gli effetti non si è presa.
Schizofrenia? Si, ma niente di patologico: normale schizofrenia della vita quotidiana.

Un esercizio utile è quello di fare un inventario delle proprie parti interne, dare un nome ad ognuna di esse, iniziare ad osservarle, a comprendere le loro motivazioni. Ad esempio potremmo scoprire dentro di noi personaggi come il rispettabile, il bastian contrario, il saggio formatore, il buono, l'insopportabile pidocchio, il sarcastico saputello, il formalista, ognuno con un suo modo di pensare, una sua visione del mondo, un repertorio preciso di emozioni, atteggiamenti e stati fisici.
Conoscere se stessi in questo caso diventa conoscere un buon numero di queste parti di noi. E poi riconoscerle, sorprenderle nella vita quotidiana, accorgersi quando escono allo scoperto, quando tendiamo a identificarci con loro, dimenticando tutto il resto che siamo. Solo questa semplice mossa ci dona un enorme margine di libertà, ci permette di diventare registi della nostra vita, anzichè attori inconsapevoli.

Adesso vi parlo un po' dell'inconscio, perché il conosci te stesso comprende sia la conoscenza degli aspetti consci, cioè di quello che sappiamo di noi stessi, sia degli aspetti inconsci. E come facciamo a conoscere l'inconscio, cioè quello che non sappiamo di noi? Appunto, non possiamo, almeno finché resta inconscio. Ma fortunatamente i confini tra conscio e inconscio sono permeabili.
Anche se Freud ha scoperto l'inconscio più di cento anni fa, e prima di lui non sono mancati poeti e filosofi che ne hanno parlato, noi per lo più ci comportiamo come se l'inconscio non esistesse. Ingenuamente siamo portati a pensare di poter conoscere tutto di noi con la mente, il ragionamento, la memoria. Ma non è così. Pensate che qualcuno afferma che il conscio è solo il 5% della nostra psiche, e la prospettiva mi sembra già ottimistica. Come se la nostra psiche fosse un grande palazzo a più piani e noi conoscessimo solo l'ingresso.

Vi racconto una storia. Sapete cos'è un comando post-ipnotico? È un ordine che l'ipnotista dà al paziente mentre quest'ultimo si trova sotto ipnosi. Quando il paziente si risveglia si ritrova a fare quello che gli ha ordinato l'ipnotista, senza ovviamente ricordare nulla.
Sigmund Freud a poco più di 30 anni andò a studiare l'ipnosi dal dottor Bernheim a Nancy, ed assistette a un esperimento che lo impressionò molto. Il dottore ordinò a un paziente in ipnosi che appena uscito dalla stanza avrebbe aperto un ombrello. Quindi risvegliò il soggetto che, senza ricordare niente, usci dalla stanza e aprì il primo ombrello che trovò. Il dottore gli chiese allora perché avesse aperto un ombrello. Sapete cosa rispose il paziente?
Non potendo sapere il vero motivo per cui lo faceva, perché il comando ipnotico era stato dato a livello inconscio, non disse semplicemente “non lo so”, ma disse qualcosa come “volevo vedere se funzionava”, oppure “volevo vedere di che colore era”, ovvero trovò una motivazione plausibile per la sua azione. Plausibile ma completamente inventata.

Cosa ci fa vedere questa storia? Che siamo mossi da forze che non conosciamo, e poi razionalizziamo il nostro comportamento con spiegazioni arbitrarie. Ignoriamo le vere motivazioni per cui facciamo quello che facciamo.
Ma lasciamo stare l'ipnosi, e occupiamoci dell'ipnosi quotidiana in cui tutti siamo più o meno immersi. Forse ogni tanto qualcuno di noi si arrabbia con la moglie, il marito o i figli? Ci arrabbiamo naturalmente per qualcosa che lui o lei dice o fa. E se qualcuno ci chiedesse dopo un po' perché ci siamo arrabbiati noi saremmo in grado di dire una serie di motivi per cui questo è successo: “lui ha fatto così, lui ha detto così, mi ha guardato così,...”
Ma se andiamo un po' più in profondità possiamo vedere che ci siamo arrabbiati perché quello che ha detto o fatto la persona è andato a toccare un tasto dolente, come una piccola ferita che abbiamo dentro che deriva dalla nostra storia personale. Magari un'altra persona nella stessa situazione avrebbe reagito in tutt'altro modo.
Io ad esempio mi sono accorto di avere una ferita di rispetto e quando percepisco che mia figlia mi manca di rispetto, ovvero quando interpreto il comportamento di mia figlia come una mancanza di rispetto nei miei confronti, mi arrabbio. Quella ferita poi se guardo indietro la ritrovo nella mia storia, e posso individuare una parte di me che ha assoluto bisogno di essere rispettata nel modo in cui lei stessa ha deciso.

Questo è l'inconscio, finché non mi sono guardato dentro, finché non conosco me stesso anche negli aspetti che restano più nascosti, resto inconsapevole delle forze che mi muovono. Se tu mi chiedi perché mi sono arrabbiato con mia figlia, io ti dico che mi sono arrabbiato perché non ha messo a posto la stanza, o perché i bambini devono imparare l'educazione, ecc., non ti dico che mi sono arrabbiato perché ho una ferita di rispetto. Come nella storia dell'ombrello del dottor Bernheim, sono mosso da forze sconosciute, in balia di forze interne che non so nemmeno di avere, che non conosco, eppure mi muovono, mi dominano, mentre io sono convinto che il mio comportamento risponda a scelte coscienti e razionali.

Conoscere se stessi allora significa conoscere la propria molteplicità interna ed arrivare pian piano ad illuminare anche le zone inconsce della psiche. Questa conoscenza ci dona una libertà fondamentale, che non troveremo mai se ci rivolgiamo unicamente fuori di noi: la possibilità di dominare, dirigere e utilizzare le nostre parti interne e le loro energie. Diventare, e questo può essere il compito di una vita, padroni di noi stessi e non farci più guidare dai vari io frammentati che ci abitano.

lunedì 25 luglio 2016

La filosofia perenne


La filosofia perenne è una visione del mondo, della natura umana e del suo rapporto con il divino che ritroviamo nel nucleo centrale di tutte le religioni e in moltissime tradizioni spirituali e filosofiche, sostanzialmente identica anche in culture molto lontane e in epoche molto diverse. È notevole che tutte le religioni, se mettiamo da parte i contenuti dottrinali e dogmatici e ci concentriamo sul loro nucleo mistico, cioè su quello che riguarda l'esperienza diretta del divino, concordino su questa visione. Seguo in questa riflessione lo schema proposto da Ken Wilber che individua, in un'intervista pubblicata in “Grazia e grinta”, sette punti fondamentali della filosofia perenne.

1.
Esiste lo Spirito, Dio, l'Uno, una Realtà Suprema che le varie tradizioni chiamano in modi diversi. L'esistenza dello Spirito è attestata da chi ne ha fatto esperienza diretta: i mistici di tutte le culture e di tutti i tempi. La conoscenza mistica non si basa su nozioni astratte, dogmatiche o metafisiche ma sull'esperienza diretta. Quindi è una conoscenza empirica e verificabile, in un certo senso scientifica. L'esperienza diretta del divino può essere raggiunta in linea di principio da ogni uomo, a patto che si sottoponga a certe condizioni e faccia il giusto percorso. Facendo un parallelo, se io volessi verificare una conoscenza scientifica dovrei innanzitutto studiare e intraprendere un training scientifico sotto la guida di qualcuno più esperto di me, quindi potrei replicare l'esperimento che dimostra quella verità scientifica. Lo stesso vale per la conoscenza mistica, solo che qui la ricerca è interiore e il laboratorio è la coscienza.

2.
Questo Spirito che è l'oggetto dell'esperienza mistica, è dentro di noi. A questo punto occorre fare una distinzione importante che tutte le tradizioni fanno: quella tra il piccolo io e il Sé. Il piccolo io, o ego, si percepisce come isolato, separato dal mondo, separato dagli altri esseri umani e molto spesso scisso anche in se stesso. Di conseguenza si sente minacciato da tutto ciò che è non-io, siano persone, circostanze o anche parti di sé. L'emozione di fondo è la paura e per rispondere ad essa, per proteggersi da quello che percepisce come una minaccia, l'ego vuole appropriarsi di persone e oggetti, vuole darsi una immagine di grandezza, di potere, di forza e cerca tragicamente di dominare e di imporsi. L'ego è amore di sé che esclude l'amore per gli altri. Dato che io sono separato dagli altri, io posso star bene ed essere felice mentre gli altri non lo sono, io posso essere felice a spese degli altri: questo è il tipico ragionamento dell'ego.
Il Sé viceversa è quella parte più profonda di noi che partecipa del divino e quindi è profondamente connessa con il tutto, con la vita e con gli altri uomini. Fare esperienza del Sè significa abbandonare l'identificazione con il mio io particolare. L'ipertrofia dell'ego, il restare rigidamente identificati con il piccolo io, con l' “io - io - io” e il “ mio - mio - mio”, è il male psicologico e morale per eccellenza, la fonte stessa del male e della malattia. Se confondo questi due aspetti e arrivo a pensare che il mio piccolo io sia Dio, allora nel migliore dei casi sono un grande narcisista, nel peggiore dei casi uno psicotico.

3.
Questa presenza dello Spirito dentro di noi non è per lo più avvertita, non ne siamo consapevoli. Secondo una bella immagine di Meister Eckhart la natura divina in noi è come una fonte sempre viva che continua a zampillare nonostante sia ricoperta da pesanti zolle di terra. Assagioli colloca il Sé in una zona inconscia del nostro psichismo, quello che lui chiama inconscio superiore. Come dire: il divino in noi c'è, ma noi non lo sappiamo. Quello che ci costituisce essenzialmente sfugge alla nostra consapevolezza, non siamo in contatto con questo principio che è fonte di gioia, salute e salvezza. Il tesoro più grande, quello che non potremo mai trovare in nessun posto fuori di noi, giace dimenticato in casa nostra e noi non lo sappiamo. Perché accade questo? Perché la nostra consapevolezza è offuscata, occupata da altro e non riesce a riposare in se stessa. Ci identifichiamo, restiamo attaccati al nostro io separato e non vediamo l'unità a cui profondamente apparteniamo, viviamo in un mondo illusorio, come addormentati.

4.
Esiste un modo, esiste un sentiero per ricollegarsi a questa fonte divina, esiste un modo per superare il senso di separatezza dell'io, e quindi la paura e la sofferenza, per superare le identificazioni parziali su cui costruiamo la nostra vita: quelle con il nostro carattere, con i ruoli che rivestiamo, con certe emozioni e pensieri, con i nostri problemi. Esiste un sentiero per uscire dalla dualità e riconoscere la propria identità con lo spirito universale. Uscire dalla dualità significa mettere fine alla separazione, che significa anche mettere fine al giudizio. Finché mi vivo come isolato e separato, allora posso giudicare, criticare, condannare parti di me, gli altri o la vita. Di questa ostilità che segna il mio rapporto con il mondo e con me stesso sono il primo a farne le spese: mi creo l'inferno in terra. Viceversa, più percepisco la connessione tra i vari aspetti di me, anche quelli che non voglio vedere, più percepisco la connessione tra me e le persone che mi sono vicine, tra me e l'umanità e tra me e la vita del pianeta, più posso comprendere e amare, e più sono in contato con la realtà piuttosto che prigioniero di una mia visione parziale della vita, di un mio film personale.

5.
Questo sentiero prevede un momento fondamentale in cui si esprime tutta la forza e la radicalità del discorso mistico: l'io deve morire. Il piccolo io deve morire perché possa manifestarsi il Sé: è il tema della morte e della rinascita presente in tutte le tradizioni spirituali. Morire a se stessi significa lasciare andare definitivamente l'attaccamento e l'identificazione con ciò che viene illusoriamente scambiato come io, con quella autocentratura e contrazione su se stessi che è l'ego. Cos'è che deve morire? Il bisogno di aver ragione, l'esigenza e la spinta meccanica a difendersi, a difendere le proprie immagini di persone importanti, intelligenti, rispettabili, il bisogno di giudicare, il desiderio di dominare gli altri, il desiderio di potere e di stima, l'attaccamento al proprio corpo fisico e la pretesa che debba essere sempre in perfette condizioni di salute, l'invidia, il confrontarsi con gli altri, il senso di superiorità e il senso di inferiorità. Queste e altre caratteristiche dell'ego in qualche modo muoiono quando attingiamo alla nostra vera natura, e di fronte a una tale radicale trasformazione interiore possiamo ben parlare di una morte e rinascita.

6.
La rinascita, la liberazione segnano la fine della sofferenza. Sofferenza che è data dalla natura stessa dell'ego, dal suo viversi come isolato, separato e quindi mancante, limitato e costantemente minacciato. L'origine della sofferenza è la stessa identificazione in un sé separato, e più rigida è l'identificazione, più stretti sono i confini dell'ego, più acuta è la sofferenza. Fine dell'ego significa fine della sofferenza. La morte dell'ego lascia spazio agli stati di pace, gioia e amore indipendenti dalle circostanze che sono direttamente collegati alla realizzazione della nostra vera natura. Chi raggiunge questo stato di identificazione con il Sé, chi contatta il divino presente in se stesso, è al sicuro qualunque cosa accada: non che il dolore sparisca completamente, ma non ha più presa, non influenza più il suo essere reale. Cosa che tra l'altro appare chiaramente nel rapporto di accettazione, serenità e non paura che riescono ad avere i grandi uomini di fronte alla morte.

7.
L'autentica illuminazione si esprime nel servizio altruistico, nell'azione sociale, nella compassione che cerca di alleviare la sofferenza degli altri, nell'amore verso il prossimo. Da qui si riconosce l'autentico illuminato, dal fatto che si adopera per gli altri, che si realizza nel servire gli altri e non nell'ottenere attraverso i suoi conseguimenti dei privilegi per se stesso, perché non c'è più un se stesso distinto da quello degli altri. Facendo il bene degli altri faccio il mio bene e facendo il mio bene faccio quello degli altri perché è caduta ogni separazione, e da questa condizione l'attitudine al servizio scaturisce naturalmente.

domenica 31 gennaio 2016

La libertà interiore


Durante il periodo fascista lo psichiatra di origine ebrea Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi, fu arrestato dal regime con l'accusa di pacifismo e internazionalismo e passò un mese in carcere. Durante quel periodo di detenzione ebbe una intuizione fondamentale. Egli contattò profondamente quella libertà essenziale presente in ognuno di noi che consiste nella possibilità di scegliere che atteggiamento assumere di fronte a qualsiasi circostanza. Si rese conto che avrebbe potuto disperarsi, fare la vittima, autocommiserarsi, indignarsi, riempirsi di rabbia, oppure avrebbe potuto prendere in modo attivo la circostanza della sua detenzione e trasformarla in un periodo di riposo, di riflessione, in un'opportunità di esercizio e di auto-osservazione, e prenderla come un ritiro spirituale. Questa scelta, si rese conto, avrebbe modificato radicalmente il significato e il valore dell'esperienza stessa.
Ben più grave fu la sorte che toccò a Victor Frankl, contemporaneo di Assagioli, che fu internato in campo di concentramento dove passo tre anni sfiorando più volte la morte. Sopravvissuto a quell'esperienza fondò la logoterapia, un approccio psicoterapeutico esistenziale, anche grazie alle intuizioni avute durante l'esperienza della deportazione. Ebbene, persino in campo di concentramento, Frankl riporta momenti di contemplazione della bellezza della natura, momenti di umorismo, di gioia, di amore, atti di solidarietà tra gli internati, come a testimoniare questa libertà umana di affrontare spiritualmente anche una fra le più terribili situazioni che la vita può imporre. Anche nel lager alcuni uomini riescono a mantenere la capacità di attribuire un significato alla propria vita: Frankl stesso immagina di tenere una volta uscito conferenze sulla psicologia del lager e di poter utilizzare, come poi effettivamente avverrà, la sua esperienza come fonte di apprendimenti fondamentali sulla vita e sulla psiche umana. Egli racconta l'incontro con una prigioniera che ringraziava l'esperienza del lager per averla risvegliata a valori spirituali che prima nella sua vita ordinaria ignorava completamente.
In un discorso intitolato “libero ovunque tu sia” tenuto in un carcere americano, Thich Nhat Hanh, monaco zen vietnamita, insegna ai detenuti pratiche meditative come respirare, mangiare e camminare in consapevolezza. Egli afferma che si può camminare da uomini liberi ovunque, anche in prigione. Essere liberi significa stare in contatto con il qui ed ora, non essere schiavi del passato o del futuro, delle preoccupazioni o dei rimpianti, non essere schiavi della rabbia, della paura o della disperazione ma essere padroni di se stessi e saper godere e gioire del fatto di essere vivi, del proprio respiro e di ogni passo che si fa. Libertà in prigione: anche in prigione è possibile essere liberi perché la libertà è una condizione interiore che non dipende dalle circostanze. Certo, verrebbe da dire, ci sono circostanze che possono facilitare il conseguimento della libertà e altre che lo rendono molto più difficile.
Un fatto che mi ha molto colpito durante la mia adolescenza è stato il suicidio di Kurt Cobain, leader del gruppo musicale dei Nirvana. Ricordo bene quando sentii per la prima volta la loro musica alla radio: era un suono nuovo, denso, che diceva tanto. In quel periodo avevo appena iniziato a suonare: facevamo i nostri primi concerti e già si parlava e si sognava di poter un giorno vivere di musica. Ai miei occhi Kurt Cobain doveva essere una persona pienamente realizzata: faceva la sua musica, aveva successo, girava il mondo, poteva fare quello che voleva, era amato e apprezzato. Eppure a ventisette anni si uccise sparandosi un colpo di fucile.
Da una parte abbiamo un prigioniero in campo di concentramento che arriva a essere grato della sua condizione perché gli ha fatto scoprire una nuova dimensione spirituale, dall'altra un uomo ricco, famoso, che ha successo ed ha realizzato quello che voleva che si toglie la vita. Come possiamo pensare ancora che la felicità e la libertà derivino da circostanze esterne? Non dovremmo concludere che siano completamente indipendenti dalle circostanze? Possiamo essere liberi anche in prigione, possiamo essere schiavi anche in mezzo alle più grandi agiatezze e ricchezze.
C'è una parte profonda dentro di noi a cui possiamo sempre ritornare e in cui troveremo sempre pace, libertà e sicurezza, un luogo dove siamo liberi e in cui siamo da sempre al sicuro, il nostro Sé, la nostra casa interiore. Quando c'è paura o agitazione, è una parte superficiale che ha paura, che soffre, che è turbata, ma in profondità c'è questo luogo di pace che resta stabile come le radici di un albero durante una tempesta che agita in modo violento i rami e le foglie, come un punto calmo nella profondità del mare anche quando questo è mosso dalle onde. In questo luogo interiore nel cuore dell'essere siamo veramente liberi.

giovedì 3 dicembre 2015

La storia del sig.B ovvero l'illuminazione della porta del salotto

A volte la moglie del sig. B si arrabbia, dice delle cose in modo scortese e irruento. Il sig. B si infastidisce, pensa che non dovrebbe comportarsi in quel modo e resta irritato con la moglie, diventa antipatico, tiene il muso, si chiude in se stesso e inizia a rispondere a monosillabi. La moglie, di conseguenza, si arrabbia ancora di più e i due litigano per tutta la giornata. A volte il sig. B, che si interessa di psicologia, quando la moglie è scortese pensa: “questo è un suo problema, è inutile che io soffra, deriva sicuramente dalla sua famiglia, io devo aiutarla a risolverlo.” Allora cerca di non infastidirsi e di parlare con lei, cercando di convincerla che starebbe meglio se non si arrabbiasse, che è inutile arrabbiarsi, che il fatto che lei si arrabbi deriva da suoi conflitti con la sua famiglia, che potrebbe cercare di cambiare, di diventare una persona gentile. La moglie del sig. B è perplessa, a volte lo sta ad ascoltare per un po’ ma le cose non cambiano e i due continuano a litigare. 
Un giorno, la moglie del sig. B si arrabbia. Il sig. B si accorge che si sta infastidendo e, visto che ha da poco letto un libro che consiglia di non reagire subito quando si è in preda alle emozioni, decide di uscire un momento dalla stanza. Il sig. B va in salotto continuando a pensare le cose che solitamente pensa in queste situazioni: “è proprio scortese, cosa ho fatto di male? Io sono così gentile! Possibile che non riesca a non arrabbiarsi per delle sciocchezze!”, sta un po lì, fa finta di mettere a posto qualcosa, poi decide di tornare in cucina. Quando appoggia la mano sulla maniglia della porta del salotto, proprio in quel momento, ha un’illuminazione. 
Improvvisamente si ritrova a salire rapidamente fino ad un punto sopra le nuvole, e da lì guardando in basso vede la terra e poi la sua regione, la sua città e la sua casa. Oltre il tetto della sua casa, vede due persone che si muovono all’interno recitando una parte che non hanno scritto loro: una persona emette dei suoni, si muove in un certo modo, fa un particolare tipo di danza, e un’altra persona emette altri suoni e fa un altro tipo di danza. Gli viene da pensare: “ma guarda, in questo pianeta accade che ci sono delle persone che si arrabbiano” e in quel particolare momento questo fatto gli sembra sorprendente e meraviglioso. 
Poi si ricorda una cosa: sua madre quando lui era bambino disapprovava le sue manifestazioni di rabbia. Una volta da bambino il sig. B aveva rotto un giocattolo dalla rabbia e i suoi genitori avevano molto disprezzato questo suo gesto, in un modo che in quel momento gli ritorna alla mente in modo molto vivido, mentre risente quell’emozione. In quell'istante il sig. B si rende conto improvvisamente che lui, in tanti anni, non ha mai accettato realmente questo aspetto di sua moglie, questo suo modo di manifestare le emozioni, lo ha sempre giudicato, ha sempre pensato che in fondo fosse sbagliato, nonostante abbia tentato nel corso del tempo diversi approcci e diverse strategie. La sua risposta emozionale, il suo fastidio e la sua irritazione di fronte al comportamento della moglie, non è altro che un condizionamento, un automatismo che si è creato quando era bambino nella relazione con i suoi genitori e che ha continuato a portarsi dietro fino adesso. La sua reazione non è una “normale reazione a un comportamento sbagliato” ma una reazione meccanica, condizionata dalla sua storia passata. Così il sig. B in quel momento realizza il collegamento fra questi fatti: i suoi genitori lo giudicavano e lo disapprovavano per le sue manifestazioni di rabbia, lui giudica e disapprova sia se stesso che la moglie per tali manifestazioni. Questo meccanismo è la vera causa della sua risposta emotiva ma, non essendone consapevole, continuava a coprirlo con pensieri e giustificazioni di vario tipo. 
Il bambino quando è piccolo è estremamente vulnerabile, la sua sopravvivenza dipende da chi lo accudisce, non è autosufficiente e dipende fisicamente e psichicamente dai suoi genitori. Per non rischiare di perdere l’amore dei propri genitori, da cui dipende la sua sopravvivenza, il bambino impara ad evitare certi comportamenti e certe manifestazioni da loro disapprovati. Si crea così un automatismo, un meccanismo di difesa, utile in quanto gli permette di mantenere il rapporto con i genitori e di adattarsi alle loro richieste, ma non più funzionale se viene conservato senza revisione fino all'età adulta. E infatti ora, da adulti, quella parte che si è creata per salvaguardarci quando eravamo bambini, si riattiva in presenza di una situazione simile a quella di allora, spingendoci ad agire con la visione e le capacità di un bambino di tre anni piuttosto che con quelle di un adulto quale ora siamo. Il sistema entra in allarme perché rileva un pericolo nella situazione attuale che in realtà non c'è. Non agiamo come persone adulte di fronte a uno stimolo reale e attuale, ma reagiamo come i bambini che siamo stati di fronte a eventi e situazioni del passato, spesso legate al rapporto con i nostri genitori, che hanno con la situazione attuale solo un nesso di somiglianza. 
Il sig. B dopo questa intuizione apre la porta e torna in cucina dove c'è sua moglie, il suo stato emotivo ora è molto diverso da prima, le dice qualcosa in tono benevolo e lei risponde con gentilezza, la sua rabbia di prima è già passata e i due tornano a conversare felicemente.

venerdì 16 ottobre 2015

A scuola da Epitteto


Nicopoli d'Epiro, Grecia, anno 108 d.C.
Arriano di Nicomedia è arrivato fino qui dalla sua città natale in Anatolia, nell'odierna Turchia, per ascoltare le lezioni del filosofo Epitteto. Mi immagino che questa lezione avvenga all'aperto, seduti su semplici sedili di legno o di pietra, in una giornata di sole con il cielo azzurro della Grecia, l'aria limpida, il clima secco e un po' ventoso. Mi immagino intorno il paesaggio tipico mediterraneo, le ginestre, una grande agave, e più lontano il mare. Mi immagino lo stato d'animo di Arriano venuto da lontano per ascoltare le parole di un maestro in grado di produrre una trasformazione interiore in chi lo ascoltava. Immagino di essere Arriano, con un'attenzione piena e concentrata per le parole del maestro e con un senso profondo di gratitudine per trovarsi lì in quel momento ad ascoltare conoscenze che liberano.
Davanti a lui il maestro, Epitteto, un uomo che come i grandi filosofi del mondo antico non era un erudito o un professore, ma un maestro di vita, ovvero un maestro che aveva realizzato e che incarnava il contenuto dei suoi insegnamenti e che invitava i suoi allievi a fare altrettanto, così che la filosofia fosse non una disciplina accanto a tante altre, ma arte di vivere. Il maestro, Epitteto, un uomo liberato due volte. Liberato in quanto, nato schiavo, fu in seguito affrancato dalla servitù legale, e liberato per la seconda volta dalla schiavitù dei pensieri, delle emozioni e dei giudizi grazie alla filosofia. Un uomo in grado di dominare tutto ciò che dipendeva da lui e di accettare serenamente e attivamente tutto ciò che non dipendeva da lui, come indicava già da secoli la dottrina stoica.
Proprio qui Arriano poté ascoltare dalla voce di Epitteto quell'insegnamento fondamentale, indispensabile per potersi inoltrare in un cammino di conoscenza e trasformazione di se stessi che rappresenta la chiave della libertà umana. Arriano ascoltò più o meno queste parole: “Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose. Pertanto, quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi.”
Questo riportare a se stessi la responsabilità dei propri stati emotivi è un atto che dà potere ed è il primo passo di un percorso di crescita interiore. L'opposto è il darne la colpa alle circostanze o alle altre persone: di fatto in questo modo rinunciamo al nostro potere e ci consegniamo alle circostanze, quindi al caso. Rinunciamo a guidare la nostra vita, ci autolimitiamo e ci autoconfiniamo in una posizione di impotenza: se si verifica la tal condizione, se gli altri si comportano in un certo modo, questo causerà in me una certa reazione. Questo apparente nesso di causa-effetto non riconosce quel fattore fondamentale che è costituito dalla nostra interpretazione o visione dell'evento, dai nostri pensieri e giudizi a riguardo: sono proprio questi ultimi, e non l'evento in se stesso, a causare in noi gli stati negativi in cui cadiamo.
Spesso tuttavia ci fa comodo scaricare la responsabilità sulle circostanze e sulle altre persone; ci fa comodo lamentarci perché in questo modo soddisfiamo una serie di vantaggi secondari come darsi ragione, sentirsi nel giusto, manipolare, autocommiserarsi, ottenere attenzione e così via; e perché questa libertà, che consegue all'assunzione di responsabilità, in fondo può far paura. Ma a parte questi vantaggi dobbiamo riconoscere che lamentarsi perché le circostanze esterne non sono come vorremmo che fossero è in fin dei conti un atto di stupidità che non riconosce la volontà del tutto in ogni cosa che accade, quello che gli stoici chiamavano Destino e i cristiani Volontà di Dio. Come facciamo a sapere qual'è la volontà di Dio? Guardiamo quello che accade, quella è la volontà di Dio. Possiamo accettarla, accoglierla, aderirvi (“sia fatta la tua volontà”), oppure resistere, lottare e cercare di andare in direzione opposta, ma alla fine, per quanto recalcitranti, saremmo comunque costretti a seguirla.
Ciò che accade non è in nostro potere, non lo decidiamo noi, semplicemente accade. Ma i nostri giudizi sono in nostro potere, li abbiamo formulati noi, certo in base alla nostra storia e alle nostre esperienze, ma come come li abbiamo costruiti, possiamo anche imparare a osservarli prima e a modificarli o lasciarli andare poi. Le cose resteranno le stesse, le circostanze non cambieranno, né cambieranno le altre persone ma noi saremo profondamente cambiati, e anche se continueremo a vivere la nostra vita e a fare apparentemente le stesse cose, sarà come se vivessimo in un altro mondo.
Questo l'insegnamento fondamentale di Epitteto che Arriano ascoltò quel giorno, e mentre ascoltava prendeva appunti che poi trascrisse, e grazie a lui queste parole sono arrivare fino a noi, perché Epitteto, come Socrate e come il Buddha, non scrisse nulla.




venerdì 4 settembre 2015

Il cammino spirituale e le tre fiere di Dante


Quando Dante nel primo canto dell'inferno esce dalla selva oscura, vede un colle illuminato dalla luce del sole.
Non è difficile vedere come la selva oscura sia simbolo della sofferenza, del dolore che inevitabilmente ogni uomo incontra nella vita. La sofferenza accomuna tutti gli uomini, tanto che per la tradizione buddista essa è la prima nobile verità. Di fronte a questa sofferenza, dalla quale non possiamo scappare, si può reagire in molti modi: ci si può scoraggiare, si può restarne prigionieri continuando a giudicare se stessi o gli altri, si può pensare che la vita è stata ingiusta, si può smettere di crescere e non volersi più rialzare. Oppure si può continuare a camminare nonostante le difficoltà e attraversare questo bosco oscuro e intricato.
Attraversare la sofferenza è anche accettare la sofferenza, con la certezza che in essa o attraverso di essa troveremo qualcosa di buono, il ben ch'io vi trovai, dice Dante. Trovare un bene, un aspetto positivo, in una situazione di sofferenza esistenziale che è stata quasi mortale.
E dunque a un certo punto, appena usciti da questa selva selvaggia e aspra e forte, proprio adesso, e non prima di aver sofferto, vediamo sulla cima della collina la luce del sole, la luce della realizzazione spirituale, la luce di quel principio divino già presente in ogni uomo ma che giace per lo più nascosto e non riconosciuto. Quel principio che se contattato può darci pienezza di vita, pace, gioia e armonia.
Iniziamo a scorgere che là, su quella cima, c'è una possibilità di vita diversa, ne abbiamo una prima visione, una intuizione per lo più fugace ma sufficiente affinché noi, usciti da un lungo periodo di dolore, desideriamo raggiungerla, e così fa Dante, che inizia a salire lungo il pendio. Ma non ci riesce, perché tre animali gli bloccano la strada.
La meta spirituale non può essere raggiunta subito. A parte rarissime eccezioni, è necessario un lungo lavoro personale prima di poter, almeno in parte, realizzare questa realtà che abbiamo iniziato a scorgere. È questo il viaggio che intraprende Dante, un viaggio di conoscenza e trasformazione di se stesso che lo porterà a incontrare e a confrontarsi con la molteplicità degli istinti umani, delle tendenze, delle pulsioni che appartengono a tutta l'umanità e quindi anche a ognuno di noi.
Ogni dannato dell'inferno può rappresentare una nostra parte interna: in ognuno di noi c'è il criminale, il violento, il bugiardo e così via. Avere il coraggio di guardare in faccia questi aspetti è proprio quello che ci consente di superarli, di trasformarli, per arrivare a contattare le parti più evolute di noi stessi, fino a raggiungere la luce del principio divino presente in noi.

Quali sono allora questi tre animali che rappresentano i principali ostacoli allo sviluppo spirituale? 
Il primo è la lonza, che tradizionalmente rappresenta la lussuria. Più in generale si può pensarla come simbolo di impulsi e istinti che costituiscono un ostacolo quando ci dominano. L'uomo che si lascia dominare dagli istinti rinuncia alla sua libertà. Cedere agli istinti, non saperli governare, significa obbedire loro, esserne posseduto, essere sbattuti di qua e di là dalle nostre parti interne meno evolute senza poter trovare una direzione. Significa non saper utilizzare l'energia istintiva, non riuscire, senza reprimerla, a indirizzarla per scopi più alti.
Il secondo animale che blocca il cammino a Dante è un leone che ruggisce rabbioso con la test'alta. È l'orgoglio egocentrico, la superbia, che ci porta a sviluppare un senso di separatezza che è la vera antitesi della spiritualità. Possiamo chiamarlo semplicemente ego, intendendo con questo termine l'identificazione nel proprio io che si percepisce come istanza psichica separata dagli altri esseri, dalla vita e dal divino e quindi costantemente in competizione e in lotta per affermarsi e mantenersi in una posizione di superiorità e potere.
L'ego è un nemico particolarmente insidioso perché capace di adattarsi a ogni nuova acquisizione e di risorgere anche una volta che si pensa di averlo sconfitto. Cosi durante un cammino spirituale non è raro imbattersi in forme sempre più raffinate di ego, che portano a sentirsi superiori per i progressi compiuti e a giudicare chi riteniamo inferiore nel processo di realizzazione. Ma è sempre ego, che si ammanta della facciata della spiritualità o della conoscenza per poter continuare a operare indisturbato. Gesù, nel deserto, viene tentato dal diavolo proprio su questo: “tu che sei il figlio di Dio, dimostra quanto sei grande e avrai il potere e la gloria…”
E infine la lupa, magrissima, affamata, insaziabile, che rappresenta la brama, gli attaccamenti di tutti i tipi e il desiderio senza fine: una volta soddisfatto un desiderio se ne presenta subito un altro. Pensiamo che saremo felici solo se avremo quell'oggetto, quella relazione, se realizzeremo quel progetto, e non ci diamo pace finché non lo otteniamo, ma così ci condanniamo a una perenne infelicità, perché cerchiamo la felicità in tutti i luoghi tranne che nell'unico in cui si trova: il presente.
Rimandiamo costantemente il momento in cui potremmo essere felici e in pace sottoponendolo a condizioni, alla condizione di aver soddisfatto questo o quel desiderio, senza renderci conto che niente potrà mai saziare la lupa, che continuerà a tormentarsi per quello che non ha e vuole ottenere.
Così le tre fiere bloccano il cammino di Dante. Così, finché non avremo acquisito il dominio sui nostri impulsi, finché non avremo abbandonato l'ego, superato la trappola dei desideri e imparato a vivere nel presente, non riusciremo a salire sul colle luminoso della realizzazione del Sé.
Questa ascesa è il frutto di una lavoro interiore che prevede sia il confronto con i nostri aspetti inferiori, sia il prendere contatto con le qualità superiori presenti in noi. Un lavoro di conoscenza e trasformazione che ci porterà a raggiungere la luce che abbiamo intravisto uscendo dalla sofferenza della selva oscura.

venerdì 28 agosto 2015

Le leggi psicologiche della psicosintesi di Assagioli


Roberto Assagioli, il padre della psicosintesi, enuncia nel 1973 le dieci leggi che descrivono il modo in cui interagiscono fra loro le varie funzioni psicologiche. Queste leggi rappresentano chiavi molto potenti per favorire il lavoro di trasformazione personale, evidenziando quali sono i punti e le modalità migliori per innescare e mantenere i cambiamenti e sfruttando le leve stesse della nostra psiche e i rapporti mente-corpo. In questo modo possiamo ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo utilizzando quella che Assagioli chiama volontà sapiente.

Prima legge: Le immagini o figure mentali e le idee tendono a produrre le condizioni fisiche e gli atti esterni ad esse corrispondenti.

Le immagini hanno un elemento motore, mettono in moto dei processi. Ogni cosa nuova prima di poter essere realizzata, deve essere immaginata e tanto più vivida sarà l'immagine tanto più semplice risulterà la realizzazione.
Quando abbiamo una difficoltà da superare, un risultato da raggiungere o vogliamo comportarci in un certo modo in una data situazione, possiamo mettere in atto una sorta di allenamento immaginativo in cui concentriamo la nostra attenzione su una immagine di noi stessi mentre compiamo quell'azione o superiamo quella prova.
Se riusciamo a immaginare la cosa in modo vivido, chiaro, dettagliato e con tutte le sensazioni connesse, l'immagine inizia ad agire modificando il modo di funzionare del nostro corpo, la nostra fisiologia, e mettendoci nelle condizioni più adatte per muoverci verso quell'obiettivo.
Tutto questo avviene in modo molto naturale: una volta stabilita l'immagine e una volta che gli diamo attenzione questa tende a lavorare da sola senza bisogno di forzature.

Seconda legge: Gli atteggiamenti, i movimenti e le azioni tendono ad evocare le immagini e le idee corrispondenti; queste, a loro volta (secondo la legge seguente) evocano o rendono più intensi le emozioni e i sentimenti.

A chi dice: “non mi comporto come una persona sicura perché non mi sento sicuro” potremmo dire: “inizia a comportarti come se tu fossi una persona sicura di se stessa e osserva come questo favorisce in te l'insorgere della sicurezza.” La porta di accesso in questo caso è rappresentata dal corpo, da atteggiamenti e azioni che possiamo compiere volontariamente, anche inizialmente senza “sentirli nostri”. Su questo principio si basa la tecnica del “come se” che prevede appunto di agire come se avessimo già la qualità che vogliamo sviluppare, come se avessimo già raggiunto lo stato desiderato.

Terza legge: Le idee e le immagini tendono a suscitare le emozioni ed i sentimenti ad esse corrispondenti.


Anziché lasciare che i nostri stati emotivi dipendano da circostanze esterne, possiamo attivare la volontà concentrando la nostra attenzione su immagini, simboli, idee, parole evocatrici che producono le emozioni corrispondenti. Possiamo decidere che emozioni vogliamo provare invece che esserne schiavi.

Quarta legge: Le emozioni e le impressioni tendono a suscitare e ad intensificare le idee e le immagini ad esse corrispondenti o collegate.

La paura di non riuscire a superare una prova suscita al nostro interno immagini in cui ci vediamo fallire e pensieri del tipo “non ce la farò”. Queste immagini e pensieri a loro volta tendono a rafforzare la paura stessa in un loop negativo che finisce per influenzare anche il corpo e le nostre capacità, impedendoci di fatto di mobilitare le risorse necessarie per riuscire.
Emozioni, pensieri e corpo si influenzano a vicenda. Sta a noi decidere in base anche alla nostra tipologia e alla situazione in quale punto del sistema è meglio intervenire per favorire un cambiamento che, una volta innescato, si riverbererà anche sugli altri piani.

Quinta legge: I bisogni, gli istinti, gli impulsi e i desideri tendono a produrre le immagini, le idee e le emozioni corrispondenti. Immagini ed idee, a loro volta (secondo la prima legge) suggeriscono le azioni corrispondenti.

Impulsi, desideri e istinti sono forze molto potenti che premono per trovare espressione e influenzano emozioni, pensieri e immagini interne anche in modo inconsapevole. Spesso ci guidano senza che noi sappiamo né come, né dove vogliono portarci. Diventando consapevoli dei nostri impulsi possiamo utilizzare la loro energia in armonia con il resto della nostra personalità e le nostre intenzioni coscienti.
Possiamo sfruttare il potere motore di impulsi e desideri per passare da uno stato attuale negativo a uno stato desiderabile più positivo: evochiamo chiaramente in noi gli aspetti negativi dello stato attuale, la sofferenza e tutti gli svantaggi connessi; quindi immaginiamo tutti i vantaggi dello stato verso cui vogliamo tendere, il piacere che avremo e tutte le conseguenze positive. In questo modo possiamo generare l'impulso e il desiderio necessario per intraprendere l'azione di cambiamento.

Sesta legge: L’attenzione, l’interesse, l’affermazione, e la ripetizione rafforzano le idee, le immagini e le formazioni psicologiche su cui si accentrano.

Settima legge: La ripetizione degli atti intensifica la tendenza a compierli e rende più facile e migliore la loro esecuzione, fino a che si arriva a poterli compiere inconsciamente.

A volte possiamo sorprenderci a ripetere dentro di noi un pensiero negativo o a tenere la nostra attenzione concentrata su una immagine negativa di noi stessi. Questo ci porta a rafforzare stati ed emozioni non desiderabili. Capendo il funzionamento del meccanismo possiamo decidere di usarlo consapevolmente in modo da rinforzare immagini e pensieri in linea con la direzione che vogliamo prendere nella nostra vita.
Ripeti un comportamento e questo diventa una abitudine che poi influirà su pensieri e immagini. Afferma e ripeti una idea e questa rafforzerà le emozioni corrispondenti. Togli attenzione e interesse a una idea o a una immagine e questa verrà depotenziata, e così via.
Anche nel mondo interno cresce e si rafforza quello che nutriamo, e il nutrimento in questo caso è costituito da attenzione, interesse e ripetizione. L'attenzione ha un potere nutritivo.
Su questi principi si basa la pubblicità e la propaganda di ogni tipo. La consapevolezza di questi meccanismi ci può mettere in guardia dalla propaganda che subiamo e farci riflettere come la pubblicità e la comunicazione di massa siano spesso intrise di veri e propri veleni psicologici (come aggressività, violenza, paura, attaccamento a desideri egoistici) che finiamo inevitabilmente per assorbire se non prendiamo le dovute precauzioni “igieniche”. Possiamo quindi togliere attenzione e interesse nei confronti di questi veleni e indirizzarli verso valori più costruttivi.

Ottava legge: Tutte le varie funzioni, e le loro molteplici combinazioni in complessi e sub-personalità, mettono in moto la realizzazione dei loro scopi al di fuori della nostra coscienza, e indipendentemente da, e perfino contro, la nostra volontà.

Una larghissima percentuale della nostra psiche è inconscia e la stragrande maggioranza dei processi che vi avvengono sono all'oscuro della nostra coscienza. Sappiamo così poco di quello che si muove in noi che spesso siamo consapevoli solo del risultato finale che affiora alla coscienza: un desiderio, un'idea, un sentimento,... Questi dati emergenti possono sembrarci incomprensibili e magari tentiamo di spiegarli usando delle razionalizzazioni, cioè creando teorie e spiegazioni che non hanno nulla a che fare con la vera causa, con quello che si è realmente mosso dentro di noi, che ignoriamo.

Nona legge: Gli istinti, gli impulsi, i desideri e le emozioni tendono ad esprimersi ed esigono espressione.

Si tratta di forze reali dentro di noi, che, come tutte le energie, non possono essere distrutte. Cercare di reprimerle è estremamente difficile e faticoso, richiede un grosso impiego di energia psichica che deve essere sottratta ad altre funzioni creative. Anche se possiamo riuscire parzialmente a reprimerla, l'energia dell'istinto e dell'emozione non può essere eliminata e resterà allo stato latente nell'inconscio. Questa energia accumulata, oltre che non essere disponibile per essere utilizzata nella nostra vita, rischia di irrompere e manifestarsi in modo negativo e disfunzionale. Oppure opera silenziosamente per trovare infine un qualche tipo di espressione indiretta che può consistere in vari tipi di disturbi psicologici o psicosomatici. La domanda è: come possiamo esprimere nel modo migliore queste energie, imparare a utilizzarle, direzionarle e trasformarle?

Decima legge: Le energie psichiche si possono esprimere: 1. direttamente (sfogo-catarsi); 2. indirettamente, attraverso un’azione simbolica; 3. con un processo di trasmutazione.

L'espressione diretta di un impulso aggressivo, ad esempio, consiste nell'aggressione fisica o verbale della persona che riteniamo averci fatto un torto. Questa forma di espressione ovviamente non sempre è praticabile e soprattutto può avere conseguenze negative.
L'espressione indiretta ha il vantaggio di scaricare l'energia come avviene per l'espressione diretta (e può essere altrettanto catartica), ma senza le conseguenze di quest'ultima. Può consistere in una azione simbolica o in una forma di appagamento immaginativo, ad esempio picchiare il cuscino o esprimere la collera in modo verbale o scritto in assenza della persona a cui è diretta.
La trasmutazione può avvenire a vari livelli: è possibile utilizzare l'energia per uno scopo diverso, innocuo o utile, ad esempio per pulire la casa, fare un lavoro manuale o nello sport. Oppure l'energia può essere messa al servizio di una causa superiore. L'originale energia aggressiva dopo un processo di sublimazione e purificazione dei moventi, può essere utilizzata ad esempio per la lotta contro le ingiustizie e i mali sociali o per altri fini costruttivi che hanno a cuore il bene di un numero sempre più ampio di persone.