giovedì 3 dicembre 2015

La storia del sig.B ovvero l'illuminazione della porta del salotto

A volte la moglie del sig. B si arrabbia, dice delle cose in modo scortese e irruento. Il sig. B si infastidisce, pensa che non dovrebbe comportarsi in quel modo e resta irritato con la moglie, diventa antipatico, tiene il muso, si chiude in se stesso e inizia a rispondere a monosillabi. La moglie, di conseguenza, si arrabbia ancora di più e i due litigano per tutta la giornata. A volte il sig. B, che si interessa di psicologia, quando la moglie è scortese pensa: “questo è un suo problema, è inutile che io soffra, deriva sicuramente dalla sua famiglia, io devo aiutarla a risolverlo.” Allora cerca di non infastidirsi e di parlare con lei, cercando di convincerla che starebbe meglio se non si arrabbiasse, che è inutile arrabbiarsi, che il fatto che lei si arrabbi deriva da suoi conflitti con la sua famiglia, che potrebbe cercare di cambiare, di diventare una persona gentile. La moglie del sig. B è perplessa, a volte lo sta ad ascoltare per un po’ ma le cose non cambiano e i due continuano a litigare. 
Un giorno, la moglie del sig. B si arrabbia. Il sig. B si accorge che si sta infastidendo e, visto che ha da poco letto un libro che consiglia di non reagire subito quando si è in preda alle emozioni, decide di uscire un momento dalla stanza. Il sig. B va in salotto continuando a pensare le cose che solitamente pensa in queste situazioni: “è proprio scortese, cosa ho fatto di male? Io sono così gentile! Possibile che non riesca a non arrabbiarsi per delle sciocchezze!”, sta un po lì, fa finta di mettere a posto qualcosa, poi decide di tornare in cucina. Quando appoggia la mano sulla maniglia della porta del salotto, proprio in quel momento, ha un’illuminazione. 
Improvvisamente si ritrova a salire rapidamente fino ad un punto sopra le nuvole, e da lì guardando in basso vede la terra e poi la sua regione, la sua città e la sua casa. Oltre il tetto della sua casa, vede due persone che si muovono all’interno recitando una parte che non hanno scritto loro: una persona emette dei suoni, si muove in un certo modo, fa un particolare tipo di danza, e un’altra persona emette altri suoni e fa un altro tipo di danza. Gli viene da pensare: “ma guarda, in questo pianeta accade che ci sono delle persone che si arrabbiano” e in quel particolare momento questo fatto gli sembra sorprendente e meraviglioso. 
Poi si ricorda una cosa: sua madre quando lui era bambino disapprovava le sue manifestazioni di rabbia. Una volta da bambino il sig. B aveva rotto un giocattolo dalla rabbia e i suoi genitori avevano molto disprezzato questo suo gesto, in un modo che in quel momento gli ritorna alla mente in modo molto vivido, mentre risente quell’emozione. In quell'istante il sig. B si rende conto improvvisamente che lui, in tanti anni, non ha mai accettato realmente questo aspetto di sua moglie, questo suo modo di manifestare le emozioni, lo ha sempre giudicato, ha sempre pensato che in fondo fosse sbagliato, nonostante abbia tentato nel corso del tempo diversi approcci e diverse strategie. La sua risposta emozionale, il suo fastidio e la sua irritazione di fronte al comportamento della moglie, non è altro che un condizionamento, un automatismo che si è creato quando era bambino nella relazione con i suoi genitori e che ha continuato a portarsi dietro fino adesso. La sua reazione non è una “normale reazione a un comportamento sbagliato” ma una reazione meccanica, condizionata dalla sua storia passata. Così il sig. B in quel momento realizza il collegamento fra questi fatti: i suoi genitori lo giudicavano e lo disapprovavano per le sue manifestazioni di rabbia, lui giudica e disapprova sia se stesso che la moglie per tali manifestazioni. Questo meccanismo è la vera causa della sua risposta emotiva ma, non essendone consapevole, continuava a coprirlo con pensieri e giustificazioni di vario tipo. 
Il bambino quando è piccolo è estremamente vulnerabile, la sua sopravvivenza dipende da chi lo accudisce, non è autosufficiente e dipende fisicamente e psichicamente dai suoi genitori. Per non rischiare di perdere l’amore dei propri genitori, da cui dipende la sua sopravvivenza, il bambino impara ad evitare certi comportamenti e certe manifestazioni da loro disapprovati. Si crea così un automatismo, un meccanismo di difesa, utile in quanto gli permette di mantenere il rapporto con i genitori e di adattarsi alle loro richieste, ma non più funzionale se viene conservato senza revisione fino all'età adulta. E infatti ora, da adulti, quella parte che si è creata per salvaguardarci quando eravamo bambini, si riattiva in presenza di una situazione simile a quella di allora, spingendoci ad agire con la visione e le capacità di un bambino di tre anni piuttosto che con quelle di un adulto quale ora siamo. Il sistema entra in allarme perché rileva un pericolo nella situazione attuale che in realtà non c'è. Non agiamo come persone adulte di fronte a uno stimolo reale e attuale, ma reagiamo come i bambini che siamo stati di fronte a eventi e situazioni del passato, spesso legate al rapporto con i nostri genitori, che hanno con la situazione attuale solo un nesso di somiglianza. 
Il sig. B dopo questa intuizione apre la porta e torna in cucina dove c'è sua moglie, il suo stato emotivo ora è molto diverso da prima, le dice qualcosa in tono benevolo e lei risponde con gentilezza, la sua rabbia di prima è già passata e i due tornano a conversare felicemente.

venerdì 16 ottobre 2015

A scuola da Epitteto


Nicopoli d'Epiro, Grecia, anno 108 d.C.
Arriano di Nicomedia è arrivato fino qui dalla sua città natale in Anatolia, nell'odierna Turchia, per ascoltare le lezioni del filosofo Epitteto. Mi immagino che questa lezione avvenga all'aperto, seduti su semplici sedili di legno o di pietra, in una giornata di sole con il cielo azzurro della Grecia, l'aria limpida, il clima secco e un po' ventoso. Mi immagino intorno il paesaggio tipico mediterraneo, le ginestre, una grande agave, e più lontano il mare. Mi immagino lo stato d'animo di Arriano venuto da lontano per ascoltare le parole di un maestro in grado di produrre una trasformazione interiore in chi lo ascoltava. Immagino di essere Arriano, con un'attenzione piena e concentrata per le parole del maestro e con un senso profondo di gratitudine per trovarsi lì in quel momento ad ascoltare conoscenze che liberano.
Davanti a lui il maestro, Epitteto, un uomo che come i grandi filosofi del mondo antico non era un erudito o un professore, ma un maestro di vita, ovvero un maestro che aveva realizzato e che incarnava il contenuto dei suoi insegnamenti e che invitava i suoi allievi a fare altrettanto, così che la filosofia fosse non una disciplina accanto a tante altre, ma arte di vivere. Il maestro, Epitteto, un uomo liberato due volte. Liberato in quanto, nato schiavo, fu in seguito affrancato dalla servitù legale, e liberato per la seconda volta dalla schiavitù dei pensieri, delle emozioni e dei giudizi grazie alla filosofia. Un uomo in grado di dominare tutto ciò che dipendeva da lui e di accettare serenamente e attivamente tutto ciò che non dipendeva da lui, come indicava già da secoli la dottrina stoica.
Proprio qui Arriano poté ascoltare dalla voce di Epitteto quell'insegnamento fondamentale, indispensabile per potersi inoltrare in un cammino di conoscenza e trasformazione di se stessi che rappresenta la chiave della libertà umana. Arriano ascoltò più o meno queste parole: “Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose. Pertanto, quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi.”
Questo riportare a se stessi la responsabilità dei propri stati emotivi è un atto che dà potere ed è il primo passo di un percorso di crescita interiore. L'opposto è il darne la colpa alle circostanze o alle altre persone: di fatto in questo modo rinunciamo al nostro potere e ci consegniamo alle circostanze, quindi al caso. Rinunciamo a guidare la nostra vita, ci autolimitiamo e ci autoconfiniamo in una posizione di impotenza: se si verifica la tal condizione, se gli altri si comportano in un certo modo, questo causerà in me una certa reazione. Questo apparente nesso di causa-effetto non riconosce quel fattore fondamentale che è costituito dalla nostra interpretazione o visione dell'evento, dai nostri pensieri e giudizi a riguardo: sono proprio questi ultimi, e non l'evento in se stesso, a causare in noi gli stati negativi in cui cadiamo.
Spesso tuttavia ci fa comodo scaricare la responsabilità sulle circostanze e sulle altre persone; ci fa comodo lamentarci perché in questo modo soddisfiamo una serie di vantaggi secondari come darsi ragione, sentirsi nel giusto, manipolare, autocommiserarsi, ottenere attenzione e così via; e perché questa libertà, che consegue all'assunzione di responsabilità, in fondo può far paura. Ma a parte questi vantaggi dobbiamo riconoscere che lamentarsi perché le circostanze esterne non sono come vorremmo che fossero è in fin dei conti un atto di stupidità che non riconosce la volontà del tutto in ogni cosa che accade, quello che gli stoici chiamavano Destino e i cristiani Volontà di Dio. Come facciamo a sapere qual'è la volontà di Dio? Guardiamo quello che accade, quella è la volontà di Dio. Possiamo accettarla, accoglierla, aderirvi (“sia fatta la tua volontà”), oppure resistere, lottare e cercare di andare in direzione opposta, ma alla fine, per quanto recalcitranti, saremmo comunque costretti a seguirla.
Ciò che accade non è in nostro potere, non lo decidiamo noi, semplicemente accade. Ma i nostri giudizi sono in nostro potere, li abbiamo formulati noi, certo in base alla nostra storia e alle nostre esperienze, ma come come li abbiamo costruiti, possiamo anche imparare a osservarli prima e a modificarli o lasciarli andare poi. Le cose resteranno le stesse, le circostanze non cambieranno, né cambieranno le altre persone ma noi saremo profondamente cambiati, e anche se continueremo a vivere la nostra vita e a fare apparentemente le stesse cose, sarà come se vivessimo in un altro mondo.
Questo l'insegnamento fondamentale di Epitteto che Arriano ascoltò quel giorno, e mentre ascoltava prendeva appunti che poi trascrisse, e grazie a lui queste parole sono arrivare fino a noi, perché Epitteto, come Socrate e come il Buddha, non scrisse nulla.




venerdì 4 settembre 2015

Il cammino spirituale e le tre fiere di Dante


Quando Dante nel primo canto dell'inferno esce dalla selva oscura, vede un colle illuminato dalla luce del sole.
Non è difficile vedere come la selva oscura sia simbolo della sofferenza, del dolore che inevitabilmente ogni uomo incontra nella vita. La sofferenza accomuna tutti gli uomini, tanto che per la tradizione buddista essa è la prima nobile verità. Di fronte a questa sofferenza, dalla quale non possiamo scappare, si può reagire in molti modi: ci si può scoraggiare, si può restarne prigionieri continuando a giudicare se stessi o gli altri, si può pensare che la vita è stata ingiusta, si può smettere di crescere e non volersi più rialzare. Oppure si può continuare a camminare nonostante le difficoltà e attraversare questo bosco oscuro e intricato.
Attraversare la sofferenza è anche accettare la sofferenza, con la certezza che in essa o attraverso di essa troveremo qualcosa di buono, il ben ch'io vi trovai, dice Dante. Trovare un bene, un aspetto positivo, in una situazione di sofferenza esistenziale che è stata quasi mortale.
E dunque a un certo punto, appena usciti da questa selva selvaggia e aspra e forte, proprio adesso, e non prima di aver sofferto, vediamo sulla cima della collina la luce del sole, la luce della realizzazione spirituale, la luce di quel principio divino già presente in ogni uomo ma che giace per lo più nascosto e non riconosciuto. Quel principio che se contattato può darci pienezza di vita, pace, gioia e armonia.
Iniziamo a scorgere che là, su quella cima, c'è una possibilità di vita diversa, ne abbiamo una prima visione, una intuizione per lo più fugace ma sufficiente affinché noi, usciti da un lungo periodo di dolore, desideriamo raggiungerla, e così fa Dante, che inizia a salire lungo il pendio. Ma non ci riesce, perché tre animali gli bloccano la strada.
La meta spirituale non può essere raggiunta subito. A parte rarissime eccezioni, è necessario un lungo lavoro personale prima di poter, almeno in parte, realizzare questa realtà che abbiamo iniziato a scorgere. È questo il viaggio che intraprende Dante, un viaggio di conoscenza e trasformazione di se stesso che lo porterà a incontrare e a confrontarsi con la molteplicità degli istinti umani, delle tendenze, delle pulsioni che appartengono a tutta l'umanità e quindi anche a ognuno di noi.
Ogni dannato dell'inferno può rappresentare una nostra parte interna: in ognuno di noi c'è il criminale, il violento, il bugiardo e così via. Avere il coraggio di guardare in faccia questi aspetti è proprio quello che ci consente di superarli, di trasformarli, per arrivare a contattare le parti più evolute di noi stessi, fino a raggiungere la luce del principio divino presente in noi.

Quali sono allora questi tre animali che rappresentano i principali ostacoli allo sviluppo spirituale? 
Il primo è la lonza, che tradizionalmente rappresenta la lussuria. Più in generale si può pensarla come simbolo di impulsi e istinti che costituiscono un ostacolo quando ci dominano. L'uomo che si lascia dominare dagli istinti rinuncia alla sua libertà. Cedere agli istinti, non saperli governare, significa obbedire loro, esserne posseduto, essere sbattuti di qua e di là dalle nostre parti interne meno evolute senza poter trovare una direzione. Significa non saper utilizzare l'energia istintiva, non riuscire, senza reprimerla, a indirizzarla per scopi più alti.
Il secondo animale che blocca il cammino a Dante è un leone che ruggisce rabbioso con la test'alta. È l'orgoglio egocentrico, la superbia, che ci porta a sviluppare un senso di separatezza che è la vera antitesi della spiritualità. Possiamo chiamarlo semplicemente ego, intendendo con questo termine l'identificazione nel proprio io che si percepisce come istanza psichica separata dagli altri esseri, dalla vita e dal divino e quindi costantemente in competizione e in lotta per affermarsi e mantenersi in una posizione di superiorità e potere.
L'ego è un nemico particolarmente insidioso perché capace di adattarsi a ogni nuova acquisizione e di risorgere anche una volta che si pensa di averlo sconfitto. Cosi durante un cammino spirituale non è raro imbattersi in forme sempre più raffinate di ego, che portano a sentirsi superiori per i progressi compiuti e a giudicare chi riteniamo inferiore nel processo di realizzazione. Ma è sempre ego, che si ammanta della facciata della spiritualità o della conoscenza per poter continuare a operare indisturbato. Gesù, nel deserto, viene tentato dal diavolo proprio su questo: “tu che sei il figlio di Dio, dimostra quanto sei grande e avrai il potere e la gloria…”
E infine la lupa, magrissima, affamata, insaziabile, che rappresenta la brama, gli attaccamenti di tutti i tipi e il desiderio senza fine: una volta soddisfatto un desiderio se ne presenta subito un altro. Pensiamo che saremo felici solo se avremo quell'oggetto, quella relazione, se realizzeremo quel progetto, e non ci diamo pace finché non lo otteniamo, ma così ci condanniamo a una perenne infelicità, perché cerchiamo la felicità in tutti i luoghi tranne che nell'unico in cui si trova: il presente.
Rimandiamo costantemente il momento in cui potremmo essere felici e in pace sottoponendolo a condizioni, alla condizione di aver soddisfatto questo o quel desiderio, senza renderci conto che niente potrà mai saziare la lupa, che continuerà a tormentarsi per quello che non ha e vuole ottenere.
Così le tre fiere bloccano il cammino di Dante. Così, finché non avremo acquisito il dominio sui nostri impulsi, finché non avremo abbandonato l'ego, superato la trappola dei desideri e imparato a vivere nel presente, non riusciremo a salire sul colle luminoso della realizzazione del Sé.
Questa ascesa è il frutto di una lavoro interiore che prevede sia il confronto con i nostri aspetti inferiori, sia il prendere contatto con le qualità superiori presenti in noi. Un lavoro di conoscenza e trasformazione che ci porterà a raggiungere la luce che abbiamo intravisto uscendo dalla sofferenza della selva oscura.

venerdì 28 agosto 2015

Le leggi psicologiche della psicosintesi di Assagioli


Roberto Assagioli, il padre della psicosintesi, enuncia nel 1973 le dieci leggi che descrivono il modo in cui interagiscono fra loro le varie funzioni psicologiche. Queste leggi rappresentano chiavi molto potenti per favorire il lavoro di trasformazione personale, evidenziando quali sono i punti e le modalità migliori per innescare e mantenere i cambiamenti e sfruttando le leve stesse della nostra psiche e i rapporti mente-corpo. In questo modo possiamo ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo utilizzando quella che Assagioli chiama volontà sapiente.

Prima legge: Le immagini o figure mentali e le idee tendono a produrre le condizioni fisiche e gli atti esterni ad esse corrispondenti.

Le immagini hanno un elemento motore, mettono in moto dei processi. Ogni cosa nuova prima di poter essere realizzata, deve essere immaginata e tanto più vivida sarà l'immagine tanto più semplice risulterà la realizzazione.
Quando abbiamo una difficoltà da superare, un risultato da raggiungere o vogliamo comportarci in un certo modo in una data situazione, possiamo mettere in atto una sorta di allenamento immaginativo in cui concentriamo la nostra attenzione su una immagine di noi stessi mentre compiamo quell'azione o superiamo quella prova.
Se riusciamo a immaginare la cosa in modo vivido, chiaro, dettagliato e con tutte le sensazioni connesse, l'immagine inizia ad agire modificando il modo di funzionare del nostro corpo, la nostra fisiologia, e mettendoci nelle condizioni più adatte per muoverci verso quell'obiettivo.
Tutto questo avviene in modo molto naturale: una volta stabilita l'immagine e una volta che gli diamo attenzione questa tende a lavorare da sola senza bisogno di forzature.

Seconda legge: Gli atteggiamenti, i movimenti e le azioni tendono ad evocare le immagini e le idee corrispondenti; queste, a loro volta (secondo la legge seguente) evocano o rendono più intensi le emozioni e i sentimenti.

A chi dice: “non mi comporto come una persona sicura perché non mi sento sicuro” potremmo dire: “inizia a comportarti come se tu fossi una persona sicura di se stessa e osserva come questo favorisce in te l'insorgere della sicurezza.” La porta di accesso in questo caso è rappresentata dal corpo, da atteggiamenti e azioni che possiamo compiere volontariamente, anche inizialmente senza “sentirli nostri”. Su questo principio si basa la tecnica del “come se” che prevede appunto di agire come se avessimo già la qualità che vogliamo sviluppare, come se avessimo già raggiunto lo stato desiderato.

Terza legge: Le idee e le immagini tendono a suscitare le emozioni ed i sentimenti ad esse corrispondenti.


Anziché lasciare che i nostri stati emotivi dipendano da circostanze esterne, possiamo attivare la volontà concentrando la nostra attenzione su immagini, simboli, idee, parole evocatrici che producono le emozioni corrispondenti. Possiamo decidere che emozioni vogliamo provare invece che esserne schiavi.

Quarta legge: Le emozioni e le impressioni tendono a suscitare e ad intensificare le idee e le immagini ad esse corrispondenti o collegate.

La paura di non riuscire a superare una prova suscita al nostro interno immagini in cui ci vediamo fallire e pensieri del tipo “non ce la farò”. Queste immagini e pensieri a loro volta tendono a rafforzare la paura stessa in un loop negativo che finisce per influenzare anche il corpo e le nostre capacità, impedendoci di fatto di mobilitare le risorse necessarie per riuscire.
Emozioni, pensieri e corpo si influenzano a vicenda. Sta a noi decidere in base anche alla nostra tipologia e alla situazione in quale punto del sistema è meglio intervenire per favorire un cambiamento che, una volta innescato, si riverbererà anche sugli altri piani.

Quinta legge: I bisogni, gli istinti, gli impulsi e i desideri tendono a produrre le immagini, le idee e le emozioni corrispondenti. Immagini ed idee, a loro volta (secondo la prima legge) suggeriscono le azioni corrispondenti.

Impulsi, desideri e istinti sono forze molto potenti che premono per trovare espressione e influenzano emozioni, pensieri e immagini interne anche in modo inconsapevole. Spesso ci guidano senza che noi sappiamo né come, né dove vogliono portarci. Diventando consapevoli dei nostri impulsi possiamo utilizzare la loro energia in armonia con il resto della nostra personalità e le nostre intenzioni coscienti.
Possiamo sfruttare il potere motore di impulsi e desideri per passare da uno stato attuale negativo a uno stato desiderabile più positivo: evochiamo chiaramente in noi gli aspetti negativi dello stato attuale, la sofferenza e tutti gli svantaggi connessi; quindi immaginiamo tutti i vantaggi dello stato verso cui vogliamo tendere, il piacere che avremo e tutte le conseguenze positive. In questo modo possiamo generare l'impulso e il desiderio necessario per intraprendere l'azione di cambiamento.

Sesta legge: L’attenzione, l’interesse, l’affermazione, e la ripetizione rafforzano le idee, le immagini e le formazioni psicologiche su cui si accentrano.

Settima legge: La ripetizione degli atti intensifica la tendenza a compierli e rende più facile e migliore la loro esecuzione, fino a che si arriva a poterli compiere inconsciamente.

A volte possiamo sorprenderci a ripetere dentro di noi un pensiero negativo o a tenere la nostra attenzione concentrata su una immagine negativa di noi stessi. Questo ci porta a rafforzare stati ed emozioni non desiderabili. Capendo il funzionamento del meccanismo possiamo decidere di usarlo consapevolmente in modo da rinforzare immagini e pensieri in linea con la direzione che vogliamo prendere nella nostra vita.
Ripeti un comportamento e questo diventa una abitudine che poi influirà su pensieri e immagini. Afferma e ripeti una idea e questa rafforzerà le emozioni corrispondenti. Togli attenzione e interesse a una idea o a una immagine e questa verrà depotenziata, e così via.
Anche nel mondo interno cresce e si rafforza quello che nutriamo, e il nutrimento in questo caso è costituito da attenzione, interesse e ripetizione. L'attenzione ha un potere nutritivo.
Su questi principi si basa la pubblicità e la propaganda di ogni tipo. La consapevolezza di questi meccanismi ci può mettere in guardia dalla propaganda che subiamo e farci riflettere come la pubblicità e la comunicazione di massa siano spesso intrise di veri e propri veleni psicologici (come aggressività, violenza, paura, attaccamento a desideri egoistici) che finiamo inevitabilmente per assorbire se non prendiamo le dovute precauzioni “igieniche”. Possiamo quindi togliere attenzione e interesse nei confronti di questi veleni e indirizzarli verso valori più costruttivi.

Ottava legge: Tutte le varie funzioni, e le loro molteplici combinazioni in complessi e sub-personalità, mettono in moto la realizzazione dei loro scopi al di fuori della nostra coscienza, e indipendentemente da, e perfino contro, la nostra volontà.

Una larghissima percentuale della nostra psiche è inconscia e la stragrande maggioranza dei processi che vi avvengono sono all'oscuro della nostra coscienza. Sappiamo così poco di quello che si muove in noi che spesso siamo consapevoli solo del risultato finale che affiora alla coscienza: un desiderio, un'idea, un sentimento,... Questi dati emergenti possono sembrarci incomprensibili e magari tentiamo di spiegarli usando delle razionalizzazioni, cioè creando teorie e spiegazioni che non hanno nulla a che fare con la vera causa, con quello che si è realmente mosso dentro di noi, che ignoriamo.

Nona legge: Gli istinti, gli impulsi, i desideri e le emozioni tendono ad esprimersi ed esigono espressione.

Si tratta di forze reali dentro di noi, che, come tutte le energie, non possono essere distrutte. Cercare di reprimerle è estremamente difficile e faticoso, richiede un grosso impiego di energia psichica che deve essere sottratta ad altre funzioni creative. Anche se possiamo riuscire parzialmente a reprimerla, l'energia dell'istinto e dell'emozione non può essere eliminata e resterà allo stato latente nell'inconscio. Questa energia accumulata, oltre che non essere disponibile per essere utilizzata nella nostra vita, rischia di irrompere e manifestarsi in modo negativo e disfunzionale. Oppure opera silenziosamente per trovare infine un qualche tipo di espressione indiretta che può consistere in vari tipi di disturbi psicologici o psicosomatici. La domanda è: come possiamo esprimere nel modo migliore queste energie, imparare a utilizzarle, direzionarle e trasformarle?

Decima legge: Le energie psichiche si possono esprimere: 1. direttamente (sfogo-catarsi); 2. indirettamente, attraverso un’azione simbolica; 3. con un processo di trasmutazione.

L'espressione diretta di un impulso aggressivo, ad esempio, consiste nell'aggressione fisica o verbale della persona che riteniamo averci fatto un torto. Questa forma di espressione ovviamente non sempre è praticabile e soprattutto può avere conseguenze negative.
L'espressione indiretta ha il vantaggio di scaricare l'energia come avviene per l'espressione diretta (e può essere altrettanto catartica), ma senza le conseguenze di quest'ultima. Può consistere in una azione simbolica o in una forma di appagamento immaginativo, ad esempio picchiare il cuscino o esprimere la collera in modo verbale o scritto in assenza della persona a cui è diretta.
La trasmutazione può avvenire a vari livelli: è possibile utilizzare l'energia per uno scopo diverso, innocuo o utile, ad esempio per pulire la casa, fare un lavoro manuale o nello sport. Oppure l'energia può essere messa al servizio di una causa superiore. L'originale energia aggressiva dopo un processo di sublimazione e purificazione dei moventi, può essere utilizzata ad esempio per la lotta contro le ingiustizie e i mali sociali o per altri fini costruttivi che hanno a cuore il bene di un numero sempre più ampio di persone.

martedì 30 giugno 2015

Appunti sul lavoro su se stessi

Possiamo vedere il processo di crescita interiore come costituito da tre tappe fondamentali: riconosci, accetta e trasforma.
Ogni processo volontario e consapevole di crescita e trasformazione di sé inizia con una fase di conoscenza. Conoscenza della parte, dell'aspetto di noi che desideriamo trasformare e far evolvere. Conoscere presuppone che siamo in grado di disidentificarci, che siamo in grado di osservare le nostre parti interne sapendo che non sono “me”. Da questa posizione disidentificata possiamo iniziare a riconoscere e a stabilire un rapporto con gli aspetti di noi su cui vogliamo lavorare. Possiamo ad esempio dire al nostro interno: “ah, ecco la mia parte arrabbiata”, come se si trattasse di un vecchio amico di cui conosciamo la fisionomia, le abitudini, il modo di pensare e di agire.
Il processo trasformativo richiede lo stabilirsi di una relazione con l'aspetto che vogliamo trasformare. In assenza di questa relazione, la parte o l'energia in noi resta sconosciuta e quindi isolata, scollegata, non comunica con il nostro io cosciente e con le altre nostre parti interne e per questo non può evolvere, né essere influenzata, ma tende a cristallizzarsi. Possiamo avere al nostro interno molte di queste parti sconosciute che agiscono al di fuori della nostra consapevolezza, che ci fanno agire in modo automatico e che ci costringono a risposte emotive poco funzionali. Possono essere parti che non sono cresciute, che pensano e sentono come bambini di pochi anni, o parti che in origine erano aspetti rifiutati andati nell'ombra, che rischiano di diventare malvagie, mostri sconosciuti dentro di noi.
Iniziare quindi a riconoscere queste parti, stabilire un rapporto con esse, farcele amiche, chiamarle con il loro nome, salutarle ogni volta che si fanno sentire, sorridergli e dargli il benvenuto al nostro interno: questi sono atteggiamenti concreti che possiamo imparare a praticare nei confronti delle nostre parti.

Arriviamo così al secondo passo: mano a mano che approfondiamo la conoscenza della nostra parte, che ne comprendiamo l'origine, la storia e le motivazioni, può svilupparsi sempre di più un atteggiamento di accettazione. Dalla conoscenza nasce l'accettazione verso quel tratto del nostro carattere che magari prima detestavamo, o verso quell'emozione da cui prima volevamo stare il più lontano possibile: vediamo queste parti di noi per quello che sono, con benevolenza, senza avversione.
In questa fase ci confrontiamo con un apparente paradosso, che rende molto delicato e difficile questo passaggio: si tratta di accettare qualcosa di noi che vogliamo trasformare. Che senso ha accettare così come sono parti di noi che vogliamo modificare? Non dovremmo forse giudicarle, odiarle, lottare per cambiarle? Il salto di livello a cui ci spinge questo paradosso è la chiave che innesca il processo di trasformazione interiore. Teniamo presente che quando non accettiamo una parte di noi stiamo praticando al nostro interno giudizio, che è una forma di ostilità, e l'ostilità non può favorire processi di trasformazione: rifiuto e giudizio inibiscono, bloccano, congelano i processi evolutivi, mentre cioè che li favorisce è il calore dell'accettazione e dell'amore.
Dall'accettazione, mano a mano che si approfondisce, può nascere l'amore. Possiamo arrivare ad amare quella parte di noi. La conoscenza si trasforma, attraverso l'accettazione, in amore. E l'amore è la vera forza trasformatrice. Quando riusciamo finalmente ad amare una nostra parte, questa tende naturalmente a trasformarsi, ad armonizzarsi con il resto della nostra personalità. L'amore è la forza unitiva per eccellenza a tutti i livelli, il fuoco alchemico che scalda gli elementi e dà il via alla trasformazione. Così al nostro interno possiamo fare degli atti concreti verso le parti di noi che troppo spesso abbiamo rifiutato, giudicato o relegato nell'ombra, e in cui è presente sofferenza: possiamo immaginare di abbracciarle, di cullarle, di prenderci cura di loro irradiandole di amore.

La terza fase che nasce spontaneamente dall'accettazione-amore è quella della trasformazione. Le parti conosciute, accettate e amate si armonizzano, si modificano, si ammorbidiscono, gli spigoli più duri si smussano, gli aspetti negativi vengono lasciati andare perché non sono più necessari e resta il distillato delle qualità già presenti in modo potenziale: di una nostra parte interna arrabbiata può restare il distillato della forza e della determinazione. Questa è la fase in cui siamo in grado di padroneggiare e di gestire i nostri processi interiori, in cui abbiamo attivato il nostro centro, la nostra volontà, e da questo centro possiamo dirigere, armonizzare e trasformare noi stessi.
Queste tre tappe, come abbiamo visto, si dispongono su un continuum, ognuna sfuma nell'altra e in un certo senso ognuna comprende le altre; non sono da intendere come fasi separate ma si compenetrano a vicenda.

Le tre tappe del processo di crescita interiore:

RICONOSCI ( non identificarti, entra in relazione, conosci, chiama con il suo nome, saluta, sorridi, dai il benvenuto )
ACCETTA ( ama, abbraccia, prenditi cura )
TRASFORMA ( possiedi, padroneggia, gestisci, armonizza )

sabato 28 febbraio 2015

Presupposti fondamentali della nostra schiavitù emozionale

Siamo schiavi delle nostre emozioni quando queste ultime ci dominano, ci spingono ad agire in modo disfunzionale senza possibilità di scelta cosciente. Quando, in preda ad una emozione, possiamo agire solo in un unico modo, allora è l'emozione che ci controlla. Questa sottile e diffusa forma di schiavitù è resa possibile e sostenuta da alcuni presupposti di base.
Il primo presupposto è la convinzione che le emozioni siano causate da fatti esterni: quella tale situazione mi rende triste, quella persona mi fa arrabbiare, quella circostanza mi spaventa. In realtà questa convinzione ignora il fatto che vi è un passaggio intermedio tra l'evento esterno e la mia emozione, e cioè il mio modo di vedere quell'evento, il mio pensiero a riguardo, la mia interpretazione: è proprio questo che causa l'emozione, non tanto l'evento in sé, come dimostra il fatto che persone diverse reagiscono in modo diverso agli stessi eventi, appunto perché è diverso il significato che attribuiscono loro. Ritenere che l'emozione sia determinata da fatti esterni ci priva di potere e ci condanna a un atteggiamento di passività: se la tal cosa accade io proverò automaticamente quella emozione e se quell'emozione è disfunzionale o indesiderabile tanto peggio per me, non ci posso fare niente. Viceversa vedere che è la nostra interpretazione dell'evento a causare l'emozione ci ridà libertà e potere perché le nostre interpretazioni possono essere consapevolizzate e modificate.
Un secondo presupposto è che le emozioni sono prova di realtà: visto che ho paura allora significa che quella cosa che vedo a terra nella penombra è un serpente, invece può essere benissimo una corda e io posso essermi sbagliato nella mia percezione. Visto che io sono in ansia allora significa che gli altri mi osservano, mi giudicano o hanno una intenzione negativa nei miei confronti, e se qualcuno tenta di spiegarmi che non è così, io gli dico che sbaglia perché io la sento veramente questa ansia. Finché credo questo farò molta fatica ad ammettere la possibilità che io stia operando una serie di distorsioni dei dati percettivi. Il fatto che io mi senta intensamente giudicato non dimostra il fatto che qualcuno mi stia realmente giudicando, piuttosto dice qualcosa del mio modo di vedere il mondo, che può essere verificato, controllato, e al limite smentito. La domanda da porci è: “sono sicuro?” Ricordiamoci che possiamo sempre sbagliare nelle nostre percezioni.
Un terzo presupposto è che non è possibile o che non è giusto decidere di provare una certa emozione; le emozioni “capitano” e basta, se potessimo decidere che emozione provare non saremmo più noi stessi, non saremmo spontanei. Qui incappiamo in una errata concezione della spontaneità per cui chiamiamo spontaneo quello che in realtà è un meccanismo emotivo automatico dettato per lo più da condizionamenti inconsci che abbiamo costruito senza rendercene conto nel corso della nostra storia, anche in risposta a esperienze dolorose. L'autentica spontaneità dovrebbe essere associata a libertà, e sgorgare naturalmente dal nostro vero Sé. I nostri automatismi emotivi allora sono il contrario della spontaneità: quando ne siamo preda siamo meccanici e prevedibili, e agiamo sulla base non della nostra autentica natura, ma di strutture che l'hanno ricoperta.
Grazie all'auto-osservazione e al lavoro personale possiamo diventare sempre più padroni di noi stessi e decidere sempre più deliberatamente in che stati emotivi entrare e in quali no. Possiamo decidere in quali stati vogliamo passare la maggior parte del nostro tempo. Possiamo decidere di uscire da un'emozione negativa quando ci accorgiamo che questa limita pesantemente le nostre potenzialità. Imparando a entrare e uscire deliberatamente dagli stati emotivi decretiamo la fine della nostra schiavitù emozionale.

martedì 27 gennaio 2015

Liberarsi dagli automatismi

Noi crediamo di essere liberi, siamo portati a pensare che le nostre azioni siano atti liberi, ma a ben vedere la nostra è più che altro una sensazione di libertà, che deriva dal fatto che ignoriamo tutto l'insieme di cause da cui siamo mossi. 
Immaginiamo una palla da biliardo che potesse avere una qualche forma di coscienza di sé ma non potesse percepire la presenza delle altre palle che la urtano. Questa palla potrebbe pensare di essere libera, di poter decidere in che direzione muoversi; ma noi da un punto di vista più ampio e conoscendo le leggi del moto vedremmo chiaramente che i suoi movimenti sono determinati necessariamente dalla traiettoria e dalla velocità delle altre palle che la colpiscono. La palla da biliardo può pensare di essere libera solo se ignora le forze da cui in realtà è mossa. 
Le nostre azioni il più delle volte sono determinate da un insieme di cause: ci limitiamo a reagire meccanicamente a certi stimoli. Ad esempio, una persona ci dice qualcosa che percepiamo come una critica e noi reagiamo con rabbia, un'altra persona ci dice un'altra cosa e noi ci rattristiamo, vediamo un certo comportamento in qualcuno e scatta un'altra reazione, e così via. Si tratta di risposte automatiche che riproponiamo sostanzialmente uguali a se stesse o con piccole varianti. Una risposta automatica è una risposta necessaria, non possiamo fare altrimenti, sappiamo reagire solo in quel modo, nel modo che ci viene spontaneo, nel modo che abbiamo imparato con la nostra educazione, spesso modellando i nostri genitori o altre figure di riferimento, nel modo che abbiamo più a lungo frequentato e a cui siamo portati da una serie di forze interne per lo più inconsce. In questo processo che segue lo schema stimolo-risposta non c'è spazio per la libertà. Siamo alla mercé degli eventi e delle altre persone. Così, mentre manteniamo la sensazione di essere liberi, il nostro comportamento è per lo più meccanico.
Come fare per liberarsi da questi automatismi? C'è un solo modo, una sola strada: quella di iniziare a prenderne consapevolezza, cioè a renderci conto di quanto reagiamo piuttosto che agire, e di quali sono le nostre parti interne e le energie coinvolte in queste reazioni. Renderci conto che siamo meccanici significa anche smettere di ritenere che le nostre reazioni siano tutte deliberate o giuste o naturali, significa smettere di giustificarci, imparare ad osservarci dal di fuori e restare aperti ai feedback che ci vengono dagli altri. 
Ci sono vari stadi di uscita dagli automatismi. Al livello zero non c'è alcuna consapevolezza: reagisco in modo automatico e non me ne accorgo. A questo livello se qualcuno tenta di farmi notare qualcosa del mio comportamento mi giustifico, oppure critico e attacco. 
Un primo livello di consapevolezza è quando riusciamo a posteriori a renderci conto di essere caduti in un automatismo: reagisco nel mio solito modo, non me ne accorgo, vado avanti, dopo un po', quando è passata la tempesta emotiva, guardando indietro quello che è successo mi dico: “accidenti, ho reagito nel mio solito modo automatico, ci sono ricaduto di nuovo”. 
Un secondo livello è quello in cui mentre agiamo c'è una piccola voce dentro di noi che ci fa notare che stiamo agendo in modo automatico, ma anche se lo riconosciamo, non riusciamo a fare niente per cambiare e continuiamo a reagire emotivamente nel nostro solito modo disfunzionale. L'energia dell'abitudine, il solco scavato dal nostro comportamento automatico è ancora troppo forte: abbiamo la consapevolezza più o meno vaga che stiamo ricadendo lì, ma non riusciamo a fare diversamente. 
Al terzo livello di consapevolezza ci rendiamo conto che siamo caduti nell'automatismo e a un certo punto riusciamo a uscirne volontariamente: riusciamo a fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevamo mai sperimentato, un atto libero, riusciamo a mettere in campo una risorsa nuova che non avevamo ancora mai attivato in quella situazione e questo ci permette di uscire dallo schema in cui eravamo prigionieri, di liberarci dalla visione e dall'emozione negativa in cui eravamo caduti e risolvere la situazione in un modo nuovo e più funzionale. 
Ai livelli successivi, contrassegnati da sempre maggior libertà, inizialmente si riduce il tempo che si passa nella fase di reazione automatica fino al punto in cui ci accorgiamo che staremmo per cadere in un automatismo ma ne usciamo ancor prima di entrarci e prima di entrare nel corrispondente stato emotivo. Ci accorgiamo che c'è una tendenza a una risposta automatica, la osserviamo e la lasciamo andare: a quel punto l'automatismo è disattivato e possiamo dire di iniziare ad avere libertà di scelta nella nostra vita.

domenica 18 gennaio 2015

Le Quattro Dimore Divine

Con il termine Brahmavihāra nel Buddhismo si indicano quattro qualità o stati mentali altamente desiderabili, detti i quattro incommensurabili o le quattro forme del vero amore.
Letteralmente il termine significa “Dimore Divine”: nella misura in cui riusciamo a generare in noi questi stati mentali e a stabilirci in essi, dimoriamo presso Dio, siamo come in paradiso, ma non dopo la morte in una ipotetica vita futura, ma proprio qui e ora mentre viviamo la nostra vita quotidiana. Come tutti gli stati mentali anche le quattro dimore divine dipendono in ultima analisi da noi e non dalle circostanze. Questo significa che se la nostra mente è sufficientemente allenata possiamo imparare a generare in noi questi stati indipendentemente dalle circostanze e anzi possiamo imparare a portarli proprio nelle situazioni difficili della nostra vita. Questi quattro stati mentali sono: Mettā, Muditā, Karunā e Upekkhā.

Mettā è la gentilezza amorevole, l'amore e la benevolenza senza discriminazione che si irradia su tutti e che desidera il bene e la felicità dell'altra persona senza chiedere nulla in cambio.
Tradizionalmente, nella meditazione di Mettā, si invia amorevole gentilezza innanzitutto a se stessi, poi a un amico o a una persona verso cui proviamo gratitudine, poi a una persona indifferente, quindi a una persona difficile o un nostro nemico e infine, progressivamente, a tutti gli esseri. Durante la meditazione si concentra l'attenzione su alcune frasi (“che tu possa essere al sicuro, libero dalla sofferenza, in pace, felice”) che hanno lo scopo di farci cambiare stato mentale, cioè di farci passare da una mente di odio, indifferenza o giudizio, a una mente d'amore. Cambiare consapevolmente il proprio stato mentale andando al di là degli automatismi è l'atto libero per eccellenza. Questo atto, che è un atto interno, rende poi possibili una serie di cambiamenti esterni: quando invece pretendiamo di cambiare il mondo esterno senza aver cambiato il nostro stato mentale, inevitabilmente andiamo incontro a grosse difficoltà.

Muditā è la gioia compartecipe, la gioia altruistica, la capacità di partecipare alla gioia altrui, l'opposto dell'invidia. Quando accediamo a questo stato mentale realizziamo che la felicità delle persone intorno a noi è la nostra stessa felicità: come posso essere felice se intorno a me ci sono persone infelici? Muditā è offrire gioia all'altra persona e considerare la gioia altrui come la propria.

Karunā è la compassione. Compassione non è commiserare l'altro, compatirlo, averne pietà, tutti atteggiamenti che sottendono un giudizio, che tendono a mettere l'altro in una posizione di inferiorità rispetto a noi, ma è la capacità di vedere e comprendere la sofferenza dell'altro, di partecipare al dolore altrui. Karunā, che come tutti i Brahmavihāra è una forma di amore, è la capacità di riconoscere la sofferenza nelle persone che amiamo e la capacità e il desiderio di alleviare questa sofferenza. Questo ci porta ad aprirci all'altro, a sentire la connessione con lui, a renderci conto che la sofferenza accomuna tutti gli uomini, al di là della facciata che mostrano. Questo vale anche nei confronti delle persone che ci causano sofferenza o ci danneggiano in qualsiasi modo. Anche la persona che ci fa soffrire, anche il nostro nemico, a sua volta soffre. Se realizziamo questo possiamo iniziare a sentire la connessione anche con lui, lo vediamo nella sua umanità, vediamo la sua sofferenza e forse potrebbe arrivarci l'intuizione che anche noi, nelle sue stesse condizioni interne ed esterne, con la sua stessa storia, condizionamenti ed esperienze alle spalle, avremmo fatto esattamente quello che ha fatto lui.
Gesù ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Chi fa il male lo fa per ignoranza, chi provoca sofferenza lo fa per ignoranza. Riconoscere questo non significa giustificare il male, ma accedere a una visione che ci aiuta a comprendere in profondità e che ci dà gli strumenti per trasformare realmente la sofferenza. Compassione non è sottomettersi, rinunciare a difendersi, mettersi sotto l’altro, giustificare il male e l’ingiustizia: la compassione dà vera forza e vera protezione, se viceversa dimoriamo nell'odio non facciamo altro che distruggere noi stessi.

Upekkhā è equanimità. Il sole è equanime, risplende su tutti senza distinzioni. La terra è equanime: è in grado di ricevere e trasformare sia sostanze pure che sostanze contaminate. Equanimità è lasciare andare attaccamenti, preferenze e avversioni, è la capacità di osservare fatti, persone, situazioni ma anche pensieri, emozioni e sensazioni accogliendoli per quello che sono, senza giudizio. Questo atteggiamento genera una mente di pace, quieta e spaziosa e in questo spazio possiamo essere non reattivi e quindi liberi. Equanimità non è indifferenza, è un guardare dall'alto che permette di cogliere le distinzioni, di discernere con visione e intelligenza senza farsi guidare da attaccamenti e avversioni.
Il punto più alto dell'amore è l'amore incondizionato, equanime: Mettā, Muditā e Karunā possono applicarsi senza discriminazione alle persone più vicine come a quelle più lontane, fino a includere i nostri nemici e tutti gli esseri. L'amore che discrimina non è amore nel senso più profondo del termine: come ha detto Gesù non c'è nessun merito speciale ad amare solo chi ti ama e fa il tuo bene, tutti lo fanno. Il vero amore è equanime, è uno stato dell'essere che si irradia su ogni cosa. Il comandamento dell'amore “ama il tuo prossimo come te stesso” comporta il realizzare che io e il mio prossimo non siamo separati, ma profondamente interconnessi, ci apparteniamo e apparteniamo alla stessa Realtà.

domenica 11 gennaio 2015

Chi era Roberto Assagioli


Roberto Assagioli, psichiatra italiano fondatore della psicosintesi, nasce nel 1888, è di tredici anni più giovane di Jung e di trentadue anni più giovane di Freud. Proprio nelle lettere tra Freud e Jung si parla di Assagioli come una promessa per la diffusione della psicoanalisi in Italia. Assagioli tuttavia subito sintetizza le idee di Freud con la sua cultura molto vasta ed eclettica: si interessava oltre che di psicologia ed educazione, di teosofia, spiritualità, pensiero orientale, esoterismo, parapsicologia, mistica, letteratura.
L'inconscio di cui parla Freud, dice Assagioli, non è la totalità dell'inconscio ma una parte, che egli chiama inconscio inferiore. Qui vi sono pulsioni, istinti, conflitti e tutto quello che rappresenta il nostro passato, i nostri condizionamenti e quello che abbiamo rimosso. Ma questo non è tutto quello che costituisce la psiche umana perché c'è un'altra porzione di inconscio che Assagioli chiama inconscio superiore e di cui la psicoanalisi ignora l'esistenza. Quest'ultimo è il luogo delle potenzialità dell'uomo, il luogo dei valori etici, delle qualità dell'essere, delle intuizioni, delle ispirazioni artistiche. È il luogo dove è contenuto ciò che l'uomo può diventare, quindi il suo futuro, le qualità che può sviluppare. Anche se i contenuti di questa parte dell'inconscio non sono attualmente manifesti, sono appunto inconsci, tuttavia sono presenti almeno a livello potenziale. In questo senso la psicosintesi propone un superamento della psicoanalisi: oltre a riconoscere i bassifondi della psiche che ci sono, hanno il loro peso, la loro forza e non sono da sottovalutare, ammette e studia anche i piani superiori, inaugurando così la psicologia umanistica e transpersonale.

Fra gli avvenimenti della sua vita, durante il periodo fascista, Assagioli, di origine ebraica, fu arrestato con l'accusa di pacifismo e trascorse un mese in carcere. In questo meraviglioso passo dello scritto autobiografico “Libertà in prigione” egli racconta come si è confrontato con questo evento:

“Mi sono reso conto di essere libero di poter scegliere tra due atteggiamenti diversi nei confronti della mia situazione, dando ad essa un certo significato, oppure un altro, utilizzandola in un modo o in un altro. Potevo ribellarmi o sottomettermi passivamente, vegetando, oppure potevo indulgere nel malsano piacere dell'autocommiserazione, assumendo il ruolo del martire. Oppure ancora potevo prendere la situazione con umorismo considerandola come una nuova ed interessante esperienza. Potevo trasformarla in un periodo di riposo, o un periodo di pensiero intenso su questioni personali, riflettendo sulla mia vita passata, o su problemi scientifici e filosofici; oppure potevo approfittare della situazione per sottopormi ad un training delle facoltà psicologiche e fare esperimenti psicologici ben precisi su me stesso. O, per concludere, potevo farla diventare un ritiro spirituale: finalmente lontano dal mondo. Non avevo alcun dubbio: dipendeva da me.”
Ogni situazione della nostra vita può essere vista, interpretata e di conseguenza vissuta in modi molto diversi. Come già diceva Epitteto: “non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”. Il nocciolo della libertà umana sta nella possibilità di ristrutturare il significato di ogni situazione, anche quelle più difficili o tragiche e questo forse è l'unico atto veramente libero che possiamo compiere. Assagioli qui sembra aver contattato, realizzato profondamente questa libertà, che comporta il fatto che qualunque cosa accada abbiamo la possibilità di affrontarla senza farci travolgere, senza perderci.

Durante la guerra Assagioli fu costretto a scappare e nascondersi con il figlio nelle campagne per sfuggire alle persecuzioni naziste. In una lettera che scrisse in seguito agli amici racconta questi momenti e le difficoltà incontrate con una leggerezza e una ironia che colpiscono:

“Grand Hôtel des Ètables' Albergo di primo... disordine. Acqua corrente in tutte le camere... quando piove […] Ricco assortimento di insetti locali di straordinaria vivacità e intraprendenza […] Grande 'fuori programma' (senza preavviso): accurata imitazione di terremoto vulcanico con pioggia di schegge incandescenti. […]”
Assagioli incarnava profondamente questa qualità dell'umorismo nel senso più alto e pulito del termine, che non si mischia con giudizio o sarcasmo ma che è capacità di vedere le cose dall'alto, nelle loro giuste proporzioni, in modo da ridimensionarle, collocarle al loro posto, senza attaccamenti o avversioni. E questa qualità spirituale dello humor traspare dal suo volto e dal suo sorriso nei ritratti che abbiamo di lui.

lunedì 5 gennaio 2015

Sviluppare pienamente se stessi

Parto da una frase di Rollo May che nel suo libro “L'arte del counseling”, parlando di una persona con cui aveva lavorato, scrive: “La sua personalità era piena di piccole inibizioni e certo non era abbastanza libero da sviluppare pienamente le capacità creative di cui era dotato.”
Ogni uomo ha delle capacità creative che possono essere sviluppate pienamente: come una ghianda naturalmente può diventare una quercia, cioè rendere attuali tutte le sue potenzialità, così ogni uomo può portare a piena manifestazione le potenzialità che ha in sé.
Il punto è se siamo abbastanza liberi da permettere a queste possibilità di svilupparsi, o detto in altri termini, se ci sono degli ostacoli che impediscono che le nostre capacità si sviluppino. La domanda chiave che possiamo porci è proprio questa: cosa mi impedisce di sviluppare pienamente le mie potenzialità?
Detto per inciso, la risposta a questa domanda sarà tanto più interessante e produttiva quanto più sapremo guardare dentro di noi piuttosto che fuori di noi, e quindi trovare delle risposte che non riguardano tanto fatti, condizioni esterne, l'operato di altre persone, ma fattori interni, ovvero convinzioni, abitudini, modi di pensare, conflitti emotivi di vario tipo.
In assenza di ostacoli il processo naturale ci guiderebbe a sviluppare pienamente tutte le nostre potenzialità e quindi condurrebbe una persona che è portata per la musica a fare il musicista, un tipo pratico dotato di manualità a fare l'artigiano, chi è portato a dirigere o coordinare altre persone a diventare un leader, una persona che tiene molto al valore della giustizia a impegnarsi in organizzazioni per la difesa dei diritti umani, e così via. Stiamo parlando della possibilità di diventare ciò che siamo. E dato che ciascuno di noi è un essere unico e irripetibile, ciascuno di noi può dare un contributo specifico al mondo.
Possiamo pensare che se una persona non si sviluppa pienamente, lascia un buco nella storia dell'essere perché nessun altro potrà portare la sua specifica qualità al posto suo. Quindi sviluppare pienamente le proprie potenzialità e vivere una vita felice e realizzata è un dovere etico perché facendolo doniamo al mondo quella nostra individualità irripetibile che ci contraddistingue e diamo al mondo un contributo che solo noi possiamo portare.
Più avanti Rollo May dice che le personalità liberate dagli ostacoli e dalle tensioni interne si sviluppano naturalmente in progressione geometrica. C'è una tendenza naturale nell'uomo all'autorealizzazione, come sostiene Abraham Maslow, un altro grande padre fondatore della psicologia umanistica. In Motivazione e personalità” Maslow afferma: “What a man can be, he must be”, “Ciò che un uomo può essere, deve esserlo”. Dove questo “deve” non è una doverizzazione, non è l'adeguarsi forzosamente a una spinta esterna o a una spinta di una nostra parte superegoica a scapito delle altri parti e della persona nel suo complesso, ma è il dovere di obbedire a una spinta interna che va nella direzione dell'autorealizzazione, è un dovere nel senso che solo se lo adempiamo raggiungiamo la piena salute e il pieno sviluppo delle nostre potenzialità. La tendenza all'autorealizzazione, ad attualizzare ciò che è potenziale, se è lasciata libera, cioè se non ci sono ostacoli emotivi, condizionamenti, forze interne che ci remano contro, conflitti di vario tipo, tende a portarci a diventare quello che siamo, a diventare tutto ciò che siamo capaci di diventare, e la nostra vita è un continuo procedere in questa direzione che è la direzione del nostro Sé.