domenica 18 gennaio 2015

Le Quattro Dimore Divine

Con il termine Brahmavihāra nel Buddhismo si indicano quattro qualità o stati mentali altamente desiderabili, detti i quattro incommensurabili o le quattro forme del vero amore.
Letteralmente il termine significa “Dimore Divine”: nella misura in cui riusciamo a generare in noi questi stati mentali e a stabilirci in essi, dimoriamo presso Dio, siamo come in paradiso, ma non dopo la morte in una ipotetica vita futura, ma proprio qui e ora mentre viviamo la nostra vita quotidiana. Come tutti gli stati mentali anche le quattro dimore divine dipendono in ultima analisi da noi e non dalle circostanze. Questo significa che se la nostra mente è sufficientemente allenata possiamo imparare a generare in noi questi stati indipendentemente dalle circostanze e anzi possiamo imparare a portarli proprio nelle situazioni difficili della nostra vita. Questi quattro stati mentali sono: Mettā, Muditā, Karunā e Upekkhā.

Mettā è la gentilezza amorevole, l'amore e la benevolenza senza discriminazione che si irradia su tutti e che desidera il bene e la felicità dell'altra persona senza chiedere nulla in cambio.
Tradizionalmente, nella meditazione di Mettā, si invia amorevole gentilezza innanzitutto a se stessi, poi a un amico o a una persona verso cui proviamo gratitudine, poi a una persona indifferente, quindi a una persona difficile o un nostro nemico e infine, progressivamente, a tutti gli esseri. Durante la meditazione si concentra l'attenzione su alcune frasi (“che tu possa essere al sicuro, libero dalla sofferenza, in pace, felice”) che hanno lo scopo di farci cambiare stato mentale, cioè di farci passare da una mente di odio, indifferenza o giudizio, a una mente d'amore. Cambiare consapevolmente il proprio stato mentale andando al di là degli automatismi è l'atto libero per eccellenza. Questo atto, che è un atto interno, rende poi possibili una serie di cambiamenti esterni: quando invece pretendiamo di cambiare il mondo esterno senza aver cambiato il nostro stato mentale, inevitabilmente andiamo incontro a grosse difficoltà.

Muditā è la gioia compartecipe, la gioia altruistica, la capacità di partecipare alla gioia altrui, l'opposto dell'invidia. Quando accediamo a questo stato mentale realizziamo che la felicità delle persone intorno a noi è la nostra stessa felicità: come posso essere felice se intorno a me ci sono persone infelici? Muditā è offrire gioia all'altra persona e considerare la gioia altrui come la propria.

Karunā è la compassione. Compassione non è commiserare l'altro, compatirlo, averne pietà, tutti atteggiamenti che sottendono un giudizio, che tendono a mettere l'altro in una posizione di inferiorità rispetto a noi, ma è la capacità di vedere e comprendere la sofferenza dell'altro, di partecipare al dolore altrui. Karunā, che come tutti i Brahmavihāra è una forma di amore, è la capacità di riconoscere la sofferenza nelle persone che amiamo e la capacità e il desiderio di alleviare questa sofferenza. Questo ci porta ad aprirci all'altro, a sentire la connessione con lui, a renderci conto che la sofferenza accomuna tutti gli uomini, al di là della facciata che mostrano. Questo vale anche nei confronti delle persone che ci causano sofferenza o ci danneggiano in qualsiasi modo. Anche la persona che ci fa soffrire, anche il nostro nemico, a sua volta soffre. Se realizziamo questo possiamo iniziare a sentire la connessione anche con lui, lo vediamo nella sua umanità, vediamo la sua sofferenza e forse potrebbe arrivarci l'intuizione che anche noi, nelle sue stesse condizioni interne ed esterne, con la sua stessa storia, condizionamenti ed esperienze alle spalle, avremmo fatto esattamente quello che ha fatto lui.
Gesù ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Chi fa il male lo fa per ignoranza, chi provoca sofferenza lo fa per ignoranza. Riconoscere questo non significa giustificare il male, ma accedere a una visione che ci aiuta a comprendere in profondità e che ci dà gli strumenti per trasformare realmente la sofferenza. Compassione non è sottomettersi, rinunciare a difendersi, mettersi sotto l’altro, giustificare il male e l’ingiustizia: la compassione dà vera forza e vera protezione, se viceversa dimoriamo nell'odio non facciamo altro che distruggere noi stessi.

Upekkhā è equanimità. Il sole è equanime, risplende su tutti senza distinzioni. La terra è equanime: è in grado di ricevere e trasformare sia sostanze pure che sostanze contaminate. Equanimità è lasciare andare attaccamenti, preferenze e avversioni, è la capacità di osservare fatti, persone, situazioni ma anche pensieri, emozioni e sensazioni accogliendoli per quello che sono, senza giudizio. Questo atteggiamento genera una mente di pace, quieta e spaziosa e in questo spazio possiamo essere non reattivi e quindi liberi. Equanimità non è indifferenza, è un guardare dall'alto che permette di cogliere le distinzioni, di discernere con visione e intelligenza senza farsi guidare da attaccamenti e avversioni.
Il punto più alto dell'amore è l'amore incondizionato, equanime: Mettā, Muditā e Karunā possono applicarsi senza discriminazione alle persone più vicine come a quelle più lontane, fino a includere i nostri nemici e tutti gli esseri. L'amore che discrimina non è amore nel senso più profondo del termine: come ha detto Gesù non c'è nessun merito speciale ad amare solo chi ti ama e fa il tuo bene, tutti lo fanno. Il vero amore è equanime, è uno stato dell'essere che si irradia su ogni cosa. Il comandamento dell'amore “ama il tuo prossimo come te stesso” comporta il realizzare che io e il mio prossimo non siamo separati, ma profondamente interconnessi, ci apparteniamo e apparteniamo alla stessa Realtà.

Nessun commento:

Posta un commento