lunedì 25 luglio 2016

La filosofia perenne


La filosofia perenne è una visione del mondo, della natura umana e del suo rapporto con il divino che ritroviamo nel nucleo centrale di tutte le religioni e in moltissime tradizioni spirituali e filosofiche, sostanzialmente identica anche in culture molto lontane e in epoche molto diverse. È notevole che tutte le religioni, se mettiamo da parte i contenuti dottrinali e dogmatici e ci concentriamo sul loro nucleo mistico, cioè su quello che riguarda l'esperienza diretta del divino, concordino su questa visione. Seguo in questa riflessione lo schema proposto da Ken Wilber che individua, in un'intervista pubblicata in “Grazia e grinta”, sette punti fondamentali della filosofia perenne.

1.
Esiste lo Spirito, Dio, l'Uno, una Realtà Suprema che le varie tradizioni chiamano in modi diversi. L'esistenza dello Spirito è attestata da chi ne ha fatto esperienza diretta: i mistici di tutte le culture e di tutti i tempi. La conoscenza mistica non si basa su nozioni astratte, dogmatiche o metafisiche ma sull'esperienza diretta. Quindi è una conoscenza empirica e verificabile, in un certo senso scientifica. L'esperienza diretta del divino può essere raggiunta in linea di principio da ogni uomo, a patto che si sottoponga a certe condizioni e faccia il giusto percorso. Facendo un parallelo, se io volessi verificare una conoscenza scientifica dovrei innanzitutto studiare e intraprendere un training scientifico sotto la guida di qualcuno più esperto di me, quindi potrei replicare l'esperimento che dimostra quella verità scientifica. Lo stesso vale per la conoscenza mistica, solo che qui la ricerca è interiore e il laboratorio è la coscienza.

2.
Questo Spirito che è l'oggetto dell'esperienza mistica, è dentro di noi. A questo punto occorre fare una distinzione importante che tutte le tradizioni fanno: quella tra il piccolo io e il Sé. Il piccolo io, o ego, si percepisce come isolato, separato dal mondo, separato dagli altri esseri umani e molto spesso scisso anche in se stesso. Di conseguenza si sente minacciato da tutto ciò che è non-io, siano persone, circostanze o anche parti di sé. L'emozione di fondo è la paura e per rispondere ad essa, per proteggersi da quello che percepisce come una minaccia, l'ego vuole appropriarsi di persone e oggetti, vuole darsi una immagine di grandezza, di potere, di forza e cerca tragicamente di dominare e di imporsi. L'ego è amore di sé che esclude l'amore per gli altri. Dato che io sono separato dagli altri, io posso star bene ed essere felice mentre gli altri non lo sono, io posso essere felice a spese degli altri: questo è il tipico ragionamento dell'ego.
Il Sé viceversa è quella parte più profonda di noi che partecipa del divino e quindi è profondamente connessa con il tutto, con la vita e con gli altri uomini. Fare esperienza del Sè significa abbandonare l'identificazione con il mio io particolare. L'ipertrofia dell'ego, il restare rigidamente identificati con il piccolo io, con l' “io - io - io” e il “ mio - mio - mio”, è il male psicologico e morale per eccellenza, la fonte stessa del male e della malattia. Se confondo questi due aspetti e arrivo a pensare che il mio piccolo io sia Dio, allora nel migliore dei casi sono un grande narcisista, nel peggiore dei casi uno psicotico.

3.
Questa presenza dello Spirito dentro di noi non è per lo più avvertita, non ne siamo consapevoli. Secondo una bella immagine di Meister Eckhart la natura divina in noi è come una fonte sempre viva che continua a zampillare nonostante sia ricoperta da pesanti zolle di terra. Assagioli colloca il Sé in una zona inconscia del nostro psichismo, quello che lui chiama inconscio superiore. Come dire: il divino in noi c'è, ma noi non lo sappiamo. Quello che ci costituisce essenzialmente sfugge alla nostra consapevolezza, non siamo in contatto con questo principio che è fonte di gioia, salute e salvezza. Il tesoro più grande, quello che non potremo mai trovare in nessun posto fuori di noi, giace dimenticato in casa nostra e noi non lo sappiamo. Perché accade questo? Perché la nostra consapevolezza è offuscata, occupata da altro e non riesce a riposare in se stessa. Ci identifichiamo, restiamo attaccati al nostro io separato e non vediamo l'unità a cui profondamente apparteniamo, viviamo in un mondo illusorio, come addormentati.

4.
Esiste un modo, esiste un sentiero per ricollegarsi a questa fonte divina, esiste un modo per superare il senso di separatezza dell'io, e quindi la paura e la sofferenza, per superare le identificazioni parziali su cui costruiamo la nostra vita: quelle con il nostro carattere, con i ruoli che rivestiamo, con certe emozioni e pensieri, con i nostri problemi. Esiste un sentiero per uscire dalla dualità e riconoscere la propria identità con lo spirito universale. Uscire dalla dualità significa mettere fine alla separazione, che significa anche mettere fine al giudizio. Finché mi vivo come isolato e separato, allora posso giudicare, criticare, condannare parti di me, gli altri o la vita. Di questa ostilità che segna il mio rapporto con il mondo e con me stesso sono il primo a farne le spese: mi creo l'inferno in terra. Viceversa, più percepisco la connessione tra i vari aspetti di me, anche quelli che non voglio vedere, più percepisco la connessione tra me e le persone che mi sono vicine, tra me e l'umanità e tra me e la vita del pianeta, più posso comprendere e amare, e più sono in contato con la realtà piuttosto che prigioniero di una mia visione parziale della vita, di un mio film personale.

5.
Questo sentiero prevede un momento fondamentale in cui si esprime tutta la forza e la radicalità del discorso mistico: l'io deve morire. Il piccolo io deve morire perché possa manifestarsi il Sé: è il tema della morte e della rinascita presente in tutte le tradizioni spirituali. Morire a se stessi significa lasciare andare definitivamente l'attaccamento e l'identificazione con ciò che viene illusoriamente scambiato come io, con quella autocentratura e contrazione su se stessi che è l'ego. Cos'è che deve morire? Il bisogno di aver ragione, l'esigenza e la spinta meccanica a difendersi, a difendere le proprie immagini di persone importanti, intelligenti, rispettabili, il bisogno di giudicare, il desiderio di dominare gli altri, il desiderio di potere e di stima, l'attaccamento al proprio corpo fisico e la pretesa che debba essere sempre in perfette condizioni di salute, l'invidia, il confrontarsi con gli altri, il senso di superiorità e il senso di inferiorità. Queste e altre caratteristiche dell'ego in qualche modo muoiono quando attingiamo alla nostra vera natura, e di fronte a una tale radicale trasformazione interiore possiamo ben parlare di una morte e rinascita.

6.
La rinascita, la liberazione segnano la fine della sofferenza. Sofferenza che è data dalla natura stessa dell'ego, dal suo viversi come isolato, separato e quindi mancante, limitato e costantemente minacciato. L'origine della sofferenza è la stessa identificazione in un sé separato, e più rigida è l'identificazione, più stretti sono i confini dell'ego, più acuta è la sofferenza. Fine dell'ego significa fine della sofferenza. La morte dell'ego lascia spazio agli stati di pace, gioia e amore indipendenti dalle circostanze che sono direttamente collegati alla realizzazione della nostra vera natura. Chi raggiunge questo stato di identificazione con il Sé, chi contatta il divino presente in se stesso, è al sicuro qualunque cosa accada: non che il dolore sparisca completamente, ma non ha più presa, non influenza più il suo essere reale. Cosa che tra l'altro appare chiaramente nel rapporto di accettazione, serenità e non paura che riescono ad avere i grandi uomini di fronte alla morte.

7.
L'autentica illuminazione si esprime nel servizio altruistico, nell'azione sociale, nella compassione che cerca di alleviare la sofferenza degli altri, nell'amore verso il prossimo. Da qui si riconosce l'autentico illuminato, dal fatto che si adopera per gli altri, che si realizza nel servire gli altri e non nell'ottenere attraverso i suoi conseguimenti dei privilegi per se stesso, perché non c'è più un se stesso distinto da quello degli altri. Facendo il bene degli altri faccio il mio bene e facendo il mio bene faccio quello degli altri perché è caduta ogni separazione, e da questa condizione l'attitudine al servizio scaturisce naturalmente.

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